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Roland Barthes
Roland Barthes
Il neutro
preliminari (18 febbraio 1978)
[...]
1. Questo corso: Il Neutro, o piuttosto: Il Desiderio di Neutro[1]
[...]
2. Argomento
Darò subito l’oggetto di questo corso, il suo argomento.
a. Definisco il Neutro come ciò che elude il paradigma, o piuttosto chiamo Neutro tutto ciò che elude il paradigma. Perché non definisco una parola, nomino una cosa: riunisco in un nome, che in questo caso è il Neutro.
Cos’è il paradigma? È l’opposizione di due termini virtuali dei quali ne attualizzo uno, per parlare, per produrre senso. Esempi:
1. In giapponese: nessuna opposizione tra l e r, semplicemente un’esitazione di pronuncia, dunque nessun paradigma ≠ in francese, l/r, perché je lis [io leggo] ≠ je ris [io rido]: creazione di senso. Allo stesso modo (ho dato spesso quest’esempio) s/z, perché non è la stessa cosa mangiare del poisson [pesce] o del poison [veleno]. Questo è fonologia, ma vi sono delle opposizioni semantiche: bianco versus nero. In altre parole, secondo la prospettiva saussuriana, alla quale, su questo punto, resto fedele, il paradigma è la molla del senso; là dove c’è senso, c’è paradigma, e là dove c’è paradigma (opposizione) c’è senso ➝ detto in mariera ellittica: il senso riposa sul conflitto (la scelta d’un termine contro un altro) e ogni conflitto è generatore di senso: scegliere l’uno e respingere l’altro, significa sempre votarsi al senso, produrre senso, darlo da consumare.
2. Da cui il pensiero di una creazione strutturale che disfa, annulla o ostacola il binarismo implacabile del paradigma, attraverso il ricorso a un terzo termine ➝ il tertium: a) in linguistica strutturale, Hjemslev, Brøndal e i fonetisti: A/B ➝ A+B (operazione complessa) e né A né B: termine amorfo, neutro (neutralizzazione fonologica) o grado zero. b) trasponendo sul piano «etico»: ingiunzioni del mondo a «scegliere», a produrre senso, a entrare nel conflitto, a «prendere le proprie responsabilità», ecc. ➝ tentazione di levare, di eludere, di schivare il paradigma, le sue ingiunzioni, le sue arroganze ➝ esentare il senso ➝ questo campo polimorfo dello scarto che permette di schivare il paradigma, il conflitto = il Neutro. Ci prenderemo il diritto di parlare di ogni stato, di ogni condotta, di ogni affetto, di ogni discorso (senza spirito e nemmeno possibilità d’esaustività) che riguarda il conflitto, o la sua rimozione, il suo evitamento, la sua sospensione.
3. Del Neutro do una definizione che resta strutturale. Con questo voglio dire che, per me, il Neutro non rinvia a «impressioni» di grigiore, di «neutralità», d’indifferenza. Il Neutro – il mio Neutro – può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. «Eludere il paradigma» è un’attività ardente, che brucia.
b. Campo.
Lessicalmente, il Neutro rinvia ai campi seguenti: 1) La grammatica: genere, né maschile né femminile, e verbi (latino) né attivi né passivi, o azione senza regime: camminare, morire (sempre il buon esempio di grammatica: buon soggetto per una tesi di linguistica: la grammatica del «morire» o delle botte![2]) 2) La politica: che non prende posizione tra due contendenti (Stati neutrali). 3) La botanica: fiore neutro, fiore in cui gli organi sessuali abortiscono costantemente (non è un’immagine piacevole). 4) Zoologia: le api operaie: che non hanno sesso, che non possono accoppiarsi. 5) La fisica: corpi neutri, che non presentano alcuna elettrizzazione, conduttori che non sono sede di alcuna corrente. 6) La chimica: sali neutri, né acidi né basici. Torneremo su queste immagini canoniche (nel dizionario Littré, nella lingua) del Neutro, il cui sfondo è chiaramente sessuale.
Il nostro scopo, evidentemente, non è disciplinare: cerchiamo la categoria del Neutro in quanto essa attraversa la lingua, il discorso, il gesto, l’atto, il corpo, ecc. Tuttavia, nella misura in cui il nostro Neutro si cerca in rapporto al paradigma, al conflitto, alla scelta, il campo generale delle nostre riflessioni sarebbe: l’etica, che è discorso della «buona scelta» (senza giochi di parole di carattere politico[3]) o della «non scelta», o della «scelta accanto»: dell’altrove della scelta, l’altrove del conflitto del paradigma. L’etica: parola che diventerà forse di moda (da sorvegliare!), non foss’altro che per la legge strutturale di rotazione dei rimossi: in Marx, in Freud, non vi è discorso dell’etica: essi non si sono dati (o non hanno voluto darsi) i mezzi per averne una; o piuttosto, in essi forse l’etica è rimossa. Ma, nei fatti, l’etica esiste sempre, ovunque; soltanto, essa è fondata, assunta o rimossa in maniere diverse: attraversa ogni discorso. Del resto, se la parola intimidisce: praxis (si fonda sulla proairesis).
Aggiungo: una riflessione sul Neutro, per me: un modo di cercare – in modo libero – il mio proprio stile di presenza nelle lotte del mio tempo.
3. Procedure di preparazione, d’esposizione
a. La biblioteca.
1. Topica. Per preparare il corso ho «fatto passeggiare» la parola «Neutro», in quanto essa ha per referente, in me, un affetto ostinato (a dire il vero a partire da Il grado zero della scrittura) nel corso di un certo numero di letture = procedura della topica: griglia in superficie della quale si porta in giro un «soggetto». Da notare che il procedimento della topica non è così arcaico quanto appare: tutto il discorso «impegnato» ne fa uso: prendete una parola-mana di oggi: «Potere», accoppiatelo con qualsiasi altra parola e parlate: «Potere e inconscio» (Verdiglione[4]), «Potere e sessualità», «Potere e Natura morta», ecc. Eppure, spero (oso credere) che la mia topica non sia così maniaca; poiché non ho fatto passeggiare il Neutro in una griglia di parole, bensì in una rete di letture, cioè una biblioteca. Questa biblioteca né ragionata (non ho seguito un programma bibliografico: cfr. l’intertesto che vi è stato distribuito) né esaustiva: biblioteca infinita: ancora adesso posso leggere un libro nuovo in cui certi passaggi possono cristallizzare intorno alla nozione di Neutro come una bizzarra rabdomanzia: leggo, la bacchetta si alza: c’è del Neutro qui sotto e, in questo modo, la nozione di Neutro si estende, si flette, si modifica: mi ostino e al contempo modifico me stesso.
2. Quale biblioteca, dunque? Quella della mia casa di campagna [Urt], cioè luogo-tempo in cui la perdita di rigore metodologico è compensata dall’intensità e dal godimento della lettura libera. Descrivere questa biblioteca, spiegare la sua origine, sarebbe entrare nella biografia, la storia familiare: biblioteca di un soggetto = identità forte, completa, un «ritratto» (cfr. la farmacopea[5]). Dirò soltanto, all’ingrosso: classica (letteraria e filosofica) + una modernità «umanista» che si ferma alla prima guerra mondiale = un apporto laterale che viene dai casi viaggianti della mia vita. Due osservazioni:
1. Il dato dei riferimenti è arbitrario (biblioteca egoista: cfr. Concert égoïste[6]): biblioteca che mi viene da un altrove (familiare): enormi carenze «tipiche», per esempio: niente sulla neutralizzazione husserliana (lascio questa carenza così com’è); ma, ancor più, in questa biblioteca ho operato delle scelte di lettura molto arbitrarie, ho scelto di non ostacolare ciò che chiamerei un’estetica del lavoro (valore escluso dalla scienza): dei libri il cui pensiero e la cui forma sono «inestetici»; ho sempre voglia che il materiale sia «di razza», per esempio: in psicanalisi ricordo di leggere Freud o Lacan, ma Karen Horney o Reich cadono al di fuori della mia sensibilità di lettura e quindi di lavoro: io non «cristallizzo» (parola amorosa).
2. Una biblioteca di autori morti ➝ può suonare funebre, passatista (≠ doxa: interessarsi al presente, lasciare i morti seppellire i morti, ecc.). Non l’intendo così: a) Distanza criticata, creatrice: per interessarmi vivamente al mio contemporaneo, posso aver bisogno della deviazione attraverso la morte (la Storia), esempio di Michelet: assolutamente presente al suo secolo ma al lavoro sulla «vita» dei Morti: faccio pensare i Morti in me: i viventi mi circondano, m’impregnano, mi prendono per l’appunto in un sistema di echi – più o meno cosciente, ma solo i morti sono degli oggetti «creatori» = noi tutti siamo presi dentro alle «mode», e che sono utili; ma soltanto la morte è creatrice. Cfr. la saggezza di quel capitalista (ho dimenticato il suo nome[7]) che, si dice, finanzi il Partito comunista: gli è stato chiesto come si comporta con la lettura di Solgenitsin e ha risposto: leggo Marx, leggo Lenin, «leggo soltanto dei morti». b) Leggere l’autore morto è, per me, cosa viva, perché sono turbato, lacerato dalla coscienza della contraddizione tra la vita intensa del suo testo e la tristezza di sapere che è morto: sono sempre triste per la morte di un autore, commosso dal racconto delle morti d’autore (Tolstoj, Gide). ➝ Il lutto è vivo.
b. Figure ➝ «Il Neutro in trenta figure»
1. Come l’anno scorso: successione (consecuzione) di frammenti, ognuno dei quali riceve un titolo = le figure del Neutro. Figura: allusione retorica (= un pezzo circoscritto di discorso, reperibile perché intitolabile) = volto che ha un’«aria», un’«espressione»: frammento non sul Neutro, ma nel quale, in modo più vago, c’è del Neutro, un po’ come quei disegni-rebus in cui si deve trovare la figura del cacciatore, del coniglio, ecc.
Non un dizionario di definizioni ma di scintille.
2. Perché? Perché quest’esposizione discontinua? Forse impotenza, da parte mia, a «costruire» uno sviluppo, un corso? Impotenza o disgusto? (Chi può distinguere fra l’inettitudine e la mancanza di gusto?) Forse le mie ragioni, degli alibi?
1. La successione di frammenti: sarebbe mettere «qualcosa» (il soggetto, il Neutro?) in stato di variazione continua (e non più articolarlo in vista di un senso finale): rapporto con la musica contemporanea, dove il «contenuto» delle forme importa meno che la loro traslazione, e forse anche con le ricerche attuali di Deleuze.
2. Ogni figura: come se si stabilisse una testa di ponte: poi che ognuno si disperda nella campagna, la sua campagna. Assunzione del principio di non esaustività: creare uno spazio proiettivo, senza la legge del sintagma.
3. Successione non organizzata di figure richiesta dal Neutro stesso, in quanto esso è il rifiuto di dogmatizzare: l’esposizione del non dogmatico non potrebbe essere essa stessa dogmatica.
Non organizzazione = non conclusione.
4. Istituzione, corso ➝ preparano uno spazio di padronanza. Ora, il mio problema costante: mettere in crisi la padronanza (la «parata»). Giustapposizione di figure: sperimenta un paradosso formulato dal Tao. Il Tao, in effetti, è «al tempo stesso il cammino da percorrere e la fine del percorso, il metodo e il compimento. Non vi è da distinguere tra il mezzo e lo scopo (...) appena si è cominciato il cammino, lo si è già percorso tutto intero[8]» ➝ ogni figura è al tempo stesso ricerca del Neutro e mostrazione del Neutro (≠ dimostrazione). Ordine paradossale dei discorsi senza risultati: o meglio, che non censura l’effetto ma che non si occupa del risultato. Ciò discreditato dalla legge del discorso occidentale. Bacon: «Aristotele, senza dubbio con molto spirito, ma certo non senza qualche pericolo, mettendo in ridicolo i sofisti del suo tempo, dice che essi assomigliavano a un calzolaio che, presentandosi come tale, non insegni la maniera di fare una scarpa, ma si contenti di esporre scarpe di tutte le fogge e di tutte le misure[9]». Io non fabbrico il concetto di Neutro, espongo Neutri.
3. All’interno di ogni figura non si tratta né di spiegare, né di definire, ma soltanto di descrivere (in modo non esaustivo):
Descrivere = «de-intrecciare» una parola (il titolo di ogni figura), da cui il ricorso frequente all’etimologia. Parola antica che può servire da metafora: parfiler: Voltaire: «Newton ha parfilé la luce del sole, come le nostre dame parfilent una stoffa d’oro. – Cosa significa parfiler, Monsieur? – Madame, l’equivalente di questa parola non si trova nelle orazioni di Cicerone. Significa sfilacciare una stoffa, de-tesserla filo a filo e separarne l’oro...»[10].
Descrivere, parfiler che cosa? le sfumature. In effetti, se fosse in mio potere, vorrei guardare le parole-figure (a cominciare dal Neutro) con uno sguardo radente che faccia apparire delle sfumature (derrata sempre più rara, vero lusso inopportuno del linguaggio; in greco = diaphora, parola nietzschiana). Intendiamoci bene: questa non è la richiesta di una sofisticazione intellettuale. Quello che cerco, nella preparazione del corso, è un’introduzione al vivere, una guida di vita (progetto etico): voglio vivere secondo la sfumatura. Ora, c’è una maestra di sfumature, la letteratura: cercare di vivere secondo le sfumature che m’insegna la letteratura («La mia lingua sulla sua pelle ≠ le mie labbra sulla sua mano») ➝ cattedra di semiologia letteraria = 1) Letteratura: codex di sfumature = 2) Semiologia: ascolto o visione delle sfumature.
4. Il caso. In che ordine mettere le figure, visto che occorre che il senso non prenda? Vecchia questione, affrontata ad ogni nuovo lavoro, in particolare qui l’anno scorso, e ancora più viva quest’anno poiché il Neutro è ciò che non fa prendere il senso: ogni «scaletta» (raggruppamento tematico) sul Neutro tornerebbe fatalmente ad opporre il Neutro all’arroganza, cioè a ricostituire un paradigma che il Neutro vuole per l’appunto eludere: il Neutro diverrebbe discorsivamente termine di un’antitesi: esponendosi, consoliderebbe il senso che vuole dissolvere.
Dunque procedura arbitraria di consecuzione. L’anno scorso: l’alfabeto. Quest’anno, rafforzamento dell’aleatorio: Titolo ➝ Ordine alfabetico ➝ Numerazione ➝ Estrazione a sorte: tavola dei numeri a caso: tavola n° 9 dell’Istituto di statistica dell’università di Parigi[11]. Successione di numeri a due cifre su dieci colonne: ho seguito i numeri per linea nel senso della lettura: il caso puro, semplice.
Vorrei far notare che i miei sforzi ripetuti per impiegare e giustificare un’esposizione aleatoria (in rottura con la forma della «dissertazione») non hanno mai avuto alcuna eco. Si ammette di commentare, di discutere l’idea di frammento, si ammette una teoria del frammento, mi si intervista a questo proposito – ma non ci si rende conto quale problema sia decidere in quale ordine li si metterà. Ora, il vero problema del frammento sta proprio in questo: che si pensi all’acuità di questo problema per i Pensieri di Pascal o per la dialettica della struttura e della non-struttura nella scrittura di Nietzsche (in modo particolare Volonta di potenza). Per me, tentennamento: caso «elettronico» = soluzione.
4. Il desiderio di neutro
a. Pathos
Tutto ciò: sereno apparato d’ordine intellettuale: argomento del corso + principio d’esposizione. Resta da affrontare la verità del corso: il desiderio che è alla sua origine e che mette in scena. Il corso esiste perché vi è un desiderio di Neutro: un pathos (una patho-logia?).
1. Ricordare la lezione inaugurale: promessa che in ogni anno di corso la ricerca prenda spunto da una fantasia personale. In breve: desidero il Neutro, dunque postulo il Neutro. Chi desidera, postula (allucina).
2. La descrizione topica, esaustiva, finale di questo desiderio di Neutro non mi appartiene, è il mio enigma, ovvero quanto di me può essere visto soltanto dagli altri. Posso soltanto indovinare, nella boscaglia di me stesso, l’antro in cui esso si apre e si approfondisce. Dico dunque che il desiderio di Neutro è il desiderio di:
— innanzitutto: sospensione (epoché) degli ordini, delle leggi, delle minacce, delle arroganze, dei terrorismi, delle ingiunzioni, dei voler-prendere.
— in seguito, per approfondimento, rifiuto del discorso di pura contestazione. Sospensione del narcisismo: non aver più paura delle immagini (imago): dissolvere la propria immagine (auspicio che confina col discorso mistico negativo, Zen o Tao).
3. Il Neutro come desiderio mette in scena di continuo un paradosso: in quanto oggetto, il Neutro è sospensione della violenza; in quanto desiderio, è violenza. Durante tutto il corso, bisognerà dunque sentire che vi è una violenza del Neutro, e che questa violenza è inesprimibile; che vi è una passione del Neutro, ma che questa passione non è quella di un voler-prendere ➝ riconosco talvolta questa passione in me dalla calma con la quale accolgo lo spettacolo dei «voler-prendere», dei dogmatismi. Ma ciò è discontinuo, erratico, come lo è sempre il desiderio: non si tratta di una saggezza, ma di un desiderio.
4. In genere, il desiderio è sempre vendibile: non facciamo altro che vendere, comprare, scambiare desideri. Il paradosso del desiderio di Neutro, la sua singolarità assoluta è quella di essere invendibile ➝ mi viene detto: «Farà un libro a partire da questo corso sul Neutro?» Mettendo da parte ogni altro problema (in particolare di performance), rispondo: «No, il Neutro è invendibile». E penso a questa frase di Bloy: «È perfettamente bello soltanto ciò che è invisibile e soprattutto che non si può comprare[12]». ➝ «Invisibile?» Direi «intenibile» ➝ dobbiamo tenere per tredici settimane sull’intenibile: poi, ciò sarà abolito.
b. Il filo tagliente del lutto
Per finire questi preliminari, e prima di lasciar divagare le figure del Neutro, credo di dover dire una parola sulla situazione del Neutro, del desiderio di Neutro, nella mia vita presente – perché non c’è verità che non sia legata all’istante.
Tra il momento in cui ho scelto l’oggetto di questo corso (nel maggio scorso) e quello in cui ho dovuto prepararlo, si è prodotto nella mia vita, alcuni di voi lo sanno, un grave avvenimento, un lutto[13]: il soggetto che si accinge a parlare del Neutro non è più lo stesso rispetto a quello che aveva deciso di parlarne ➝ In origine, si trattava di parlare della rimozione dei conflitti ed è ancora di questo che si parlerà, perché al Collège de France non si cambia un programma; ma, dietro al discorso di cui ho esposto l’argomento e la procedura, mi sembra che io stesso senta, oggi, per istanti fuggitivi, un’altra musica. Quale: ne situerò la regione, l’altrove, in questo modo: come una questione che si stacca da una prima questione, come un secondo Neutro che s’intravede dietro a un primo Neutro:
1. La prima questione, il primo Neutro, oggetto dichiarato del corso, è la differenza che separa il voler-vivere dal voler-prendere: il voler-vivere è allora riconosciuto come la trascendenza del voler-prendere, la deriva lontano dall’arroganza: abbandono il voler-prendere, preparo il voler-vivere.
2. La seconda questione, il secondo Neutro, oggetto implicito del corso, è la differenza che separa questo voler-vivere, che è tuttavia già decantato, dalla vitalità. ➝ Pasolini, in una poesia, dice che non gli resta altro: «una disperata vitalità» ➝ la vitalità disperata è l’odio della morte. Cosa separa dunque il ritiro lontano dalle arroganze, dalla morte odiata? È questa distanza difficile, incredibilmente forte e quasi impensabile, che chiamo il Neutro, il secondo Neutro. La sua forma essenziale è in definitiva una protesta, che consiste a dire: m’importa poco di sapere de Dio esiste o no; ma ciò che so e che saprò fino in fondo, è che non avrebbe dovuto creare al tempo stesso l’amore e la morte. Il Neutro è questo No irriducibile: un No come sospeso davanti agli indurimenti della fede e della certezza, e incorruttibile dall’una come dall’altra.
[...]
la delicatezza (25 febbraio/4 marzo 1978)
1. Principio di delicatezza
Devo tornare – per prenderne spunto ancora una volta – ad un brano di Sade che ho citato nel corso dell’anno passato, sul principio di delicatezza:
«Avendo la marchesa de Sade domandato al marchese prigioniero di farle avere la sua biancheria sporca (conoscendo la marchesa: per quale altro scopo se non quello di farla lavare?), Sade finge di vedervi un motivo tutto diverso, propriamente sadiano: “Incantevole creatura, volete la mia biancheria sporca, la mia biancheria usata? Lo sapete che questo è di una delicatezza estrema? Vedete come sento il valore delle cose. Ascoltate, angelo mio, ho tutto il desiderio del mondo di soddisfarvi in ciò, giacché sapete quanto rispetti i gusti, le fantasie: per barocche che siano le trovo tutte rispettabili, sia perché non se ne è padroni, sia perché la più singolare e la più bizzarra di tutte, ben analizzata, risale sempre a un principio di delicatezza[14]”».
Mai separare una condotta dal resoconto che ne è fatto, perché il verbo penetra l’atto da parte a parte. L’enunciato di Sade fa vedere cos’è il principio di delicatezza: un godimento d’analisi, un’operazione verbale che elude ciò che è atteso (gli indumenti sono sporchi per essere lavati) e fa sentire che la delicatezza è una perversione che gioca sul dettaglio inutile (non funzionale): l’analisi produce qualcosa di minuto (un senso possibile di «delicato», ma di etimologia dubbia) ed è questo ritaglio, questa deviazione a procurare godimento ➝ si potrebbe dire: godimento del «futile» (fundo – che scorre, che niente può trattenere). Insomma, delicatezza: l’analisi (lyô– sciogliere) che non serve a niente. Questo è lo sfondo, la tela semantica – Dunque, anche noi, analizziamo:
2. Scintille della delicatezza
Non «tratti», «elementi», «componenti», ma ciò che brilla a tratti, in disordine, in modo fuggitivo, successivamente, nel discorso «aneddotico»: il tessuto d’aneddoti del libro e della vita.
a. Minuzia
Arte del tè (Giappone) ➝ religione estetica, XV secolo: il teismo = taoismo travestito (Tè. Periodo delle scuole di tè). I: tè bollito (torta di tè da bollire), II: tè battuto, III: tè infuso16.
1. Tè bollito: osservare la minuzia dell’analisi, delle classificazioni. Acqua: la migliore: acqua di montagna, poi acqua di fiume, poi acqua di sorgente. Ebollizione: 1) Bollicine simili a occhi di pesce, 2) bolle come perle di cristallo che vorticano in una fontana, 3) onde che balzano furiosamente nel bollitore. (➝ Far arrostire la torta di tè di fronte al fuoco fino a che non diventi «tenera come il braccio d’un bambino». Polverizzarla tra due fogli di carta ➝ mettere il sale nella prima ebollizione, il tè nella seconda; e nella terza un mestolo d’acqua fredda per fissare il tè e «ridare all’acqua la sua giovinezza»).
2. Tè battuto: ridurre in polvere le foglie in un piccolo mortaio di pietra (Song[16]) ➝ battere il preparato nell’acqua calda con una piccola verga di bambù tagliato.
Verso il dettaglio inutile o misteriosamente utile: la minuzia: al limite dello strambo. Insomma: arte del supplemento inutile. (Cfr. un modo d’intendere il problema della pulizia. Nell’ideologia para-hippie, una contestazione della pulizia perché, effettivamente, la società tende a farne sempre più un valore a) funzionale (igiene), b) morale (per metonimia: purezza, probità, onestà, ecc.). Ma la pulizia può essere anche fondata e difesa in quanto arte: non perché produca per forza il bello, ma perché può essere il campo di un’arte, come Kakuzo: non assumere nei confronti di un oggetto antico l’ardore di una massaia olandese, cfr. i restauri di quadri che danno come risultato degli El Greco alla candeggina. Arte = pratica sottile della differenza: non trattare tutti gli oggetti nello stesso modo: trattare ciò che appare identico come differente).
b. Discrezione
Etimologia: separare, discernere. La discrezione rinvia in effetti a un’idea implicita del soggetto, in quanto composto da parti separate; accetta l’eterogeneità ≠ immagine massiva, arrogante, di un soggetto «tutto d’un pezzo», «franco», ecc. ➝
1. Separazione dell’azione dall’apparenza: Tao ha proposto una sorta di utopia politica, in forma d’antica età dell’oro del tempo dei principi antichi: «Nei primi tempi, [...] i sudditi sapevano a malapena d’avere un principe (tanto era discreta la sua azione)...» «Quanto delicato fu il tocco degli antichi sovrani[17]».
2. Separazione del Significante e del Significato: distanza interna al segno: Tao: difficoltà della Via[18]. Il discepolo informa il maestro dei suoi progressi (che sono in realtà dei regressi) e il maestro fa dei cenni d’approvazione molto discreti, ma sempre più lusinghieri: uno sguardo, un sorriso, un invito a sedersi ➝ Delizie utopiche di un mondo in cui il sorridere sarebbe la manifestazione di una solidarietà dottrinale, politica, ecc., per esempio: un gesto da militante, o di autocontrollo (nelle commissioni, agli esami). ➝ Campo delle regole per misurare l’azione d’amore (non pesare sull’altro). Per esempio: confrontare le investiture nel mondo occidentale (re, vescovi, congressi, elezioni, eredità, ecc.) e questo gesto orientale: Zen trasmesso da Buddha al suo discepolo Mahaskashyapa: davanti alla congregazione, Buddha porge un mazzo di fiori al discepolo: gesto il cui senso è immediatamente colto dal discepolo che rispose al maestro con un sorriso calmo[19].
3. Distinzione delirante delle funzioni: arte dei fiori (Giappone). Ogni fiore era affidato a un domestico speciale: lavare le foglie con una fine spazzola di peli di coniglio. È scritto nel Pingtsé: la peonia dev’essere annaffiata da una bella fanciulla vestita con grande eleganza e il susino invernale da un monaco pallido e gracile[20].
[...]
c. Supplemento e non ridondanza
1. Secondo il modello orientale, la delicatezza obbliga all’eliminazione meticolosa di ogni ripetizione: la delicatezza ha paura delle ripetizioni, ne è offesa. Esempio, Giappone: nella camera del tè: nessun colore, nessun disegno può essere ripetuto: se nella stanza c’è un fiore vivo, i quadri di fiori sono proibiti; se il bollitore è rotondo, la brocca dell’acqua avrà degli spigoli; la tazza di smalto nero non deve essere vicina a una scatola di tè in lacca nera; non fare uso di fiori bianchi di susino quando ancora c’è neve in giardino. Anche lo spazio non deve ripetersi, e quindi essere simmetrico: nella camera del tè non mettere niente al centro di qualcosa al fine di non dividere lo spazio in due parti uguali[21].
2. Il rifiuto della ridondanza va di pari passo, si può dire, con la ricerca del «supplemento» di ciò che ho chiamato altrove l’iper-determinazione dei piaceri (o per essere più modesto, visti gli esempi scelti: delle piacevolezze). Il principio è che non si deve ripetere una stessa sostanza (fiore, colore, ecc.), ma, all’inverso, si deve cercare di sovra-imprimere i «tratti» delle diverse sostanze (facendo appello per esempio a sensi diversi). Per esempio, piacere del tè: deve accompagnarsi, esaltarsi col canto del bollitore: musica dell’acqua che bolle nel bollitore di ferro: il bollitore canta bene perché sul suo fondo sono stati collocati dei pezzi di ferro in modo da fargli produrre una melodia particolare[22]. O ancora (sempre problemi di bevande): Crizia (sofista) aveva il senso del quotidiano e dell’invenzione pratica: inventò il kôthôn (una specie di tazza, di gavetta per i soldati lacedemoni): «grazie al suo colore impediva la vista dell’acqua sgradevole a vedersi (perché fangosa) e la sua forma era tale che il fango restava incollato alle scanalature, cosicché soltanto l’acqua più pura giungeva alle labbra del bevitore[23]». ➝ Problema di estetica dei comportamenti: si possono iperdeterminare i piaceri all’infinito? Si giunge al più presto a un «comfort» iperdeterminato dall’accumulazione dei gadget: saturazione di agi che scivola nel ridicolo o nel risibile: Charlot nella sua cella di carcerato, Tempi moderni ➝ sorta di regola esponenziale del piacere: regola di limitazione: due piaceri, due sensi mobilitati: al di là, è forse più ossessivo che perverso, più barocco che delicato.
d. La buona educazione come pensiero dell’altro, considerazione (nei due sensi del temine) dell’altro
Buona educazione (un tema da affrontare un giorno): è «interessante» (per noi, in relazione al principio di delicatezza) soltanto nei suoi tratti eccessivi (perché altrimenti presa in una ganga conformista di abitudini: ciò che si deve fare); la buona educazione è delicata soltanto se, attraverso l’eccesso, ritrova un’inventività che all’occorrenza confina con lo strambo. Due esempi fra gli altri: a) Walter Benjamin, a Marsiglia, fa un’esperienza di H [hascisc]; va al ristorante Basso ed esita fra diversi piatti: «non per voracità, ma per deliberata buona educazione nei confronti dei piatti, per paura di offenderli rifiutandoli[24]». b) Questo, che è un ammirevole ribaltamento tramite delicatezza = poiché delicatezza dottrinale: dottrina Tao sull’immortalità del corpo (anima ≠ corpo: dicotomia occidentale): è il corpo che deve restare immortale. Immortalità: conservazione del corpo vivente. Nel corso della vita, bisogna rimpiazzare poco a poco il corpo mortale con un corpo immortale, facendo nascere in sé degli organi immortali che sostituiscono gli organi mortali. Tuttavia, smentita immediata dei fatti: evidente che ognuno muore. «Per non causare turbamento nella società umana, in cui la morte è un avvenimento normale, colui che diventava immortale (tramite dieta Tao: astinenza dai cereali) dava l’impressione di morire e lo si seppelliva normalmente: quello che veniva introdotto nel feretro era una spada o un bastone a cui egli aveva dato l’apparenza d’un cadavere; il vero corpo era andato a vivere tra gli Immortali[25]» = «la Liberazione del cadavere». Ammirevole pensiero rivolto agli altri, pura delicatezza: aver l’aria di essere morto per non urtare, ferire, disorientare quelli che muoiono.
e. Metaforizzazione
Principio di delicatezza = principio (nel senso di movimento, forza) di distinzione-valore (distinguere valorizzando): possibile soltanto attraverso l’esercizio del linguaggio. La delicatezza è legata in modo consustanziale al potere di metaforizzare, cioè di staccare un tratto e farlo proliferare nel linguaggio, in un movimento d’esaltazione. Esempio: nel Chaking, bibbia del tè, codice del tè, scritto da Luwuh (VIII secolo) – tè, l’abbiamo visto, generatore di delicatezza al pari di una droga superiore –, le foglie di tè, sottomesse al principio di delicatezza non appena sono metaforizzate con ebbrezza: esse devono avere «delle pieghe come quelle degli stivali di cuoio dei cavalieri tartari, dei boccoli come i crini di un bue possente, devono svolgersi come la nebbia che sale da un burrone, brillare come un lago sfiorato dallo zefiro, essere umide e dolci al tatto come la terra appena spazzata dalla pioggia[26]». «Tutto passa attraverso il linguaggio» vuol dire = il linguaggio crea tutto: la metafora crea la delicatezza; il discorso umanista avrebbe detto: la metafora crea la civiltà (quest’ultima non essendo necessariamente «umanista», classica). ➝ Arriverei fino a dire: la lingua crea il reale; scegliendo la propria lingua, si sceglie il proprio reale: non si tratta dello stesso reale, dello stesso contatto (visto che vado a citare un esempio amoroso) se si dice all’essere desiderato: la mia lingua sulla tua pelle oppure le mie labbra sulla tua mano, o piuttosto l’essere desiderato riceve lo stesso gesto sotto due specie verbali differenti. Per Sade, fondatore del principio, o autore eponimo della categoria, questo principio non sarebbe stato possibile senza la marchesa, la lettera, l’interlocuzione, la lingua.
3. Delicatezza e socialità
a. La delicatezza come oggetto sociale
Legata al linguaggio, fondata da esso, delicatezza: subisce il divieto che colpisce la preziosità.
1. Il fondamento del divieto: dichiarazione di virilità: Delicatus = effemminato: condanna virile del delicato, del prezioso, del «deliquescente», del «decadente»; questo si combina con un’immagine virile dell’empirico: ciò che è inutile, futile, è femminile: ben notato da Valéry nella sua prefazione agli haiku giapponesi: «Alcune persone non sono colpite da questa qualità squisita. Ve ne sono anzi di quelle che la condannano e che pretendono che essa snervi il coraggio. Gli ottusi sognano che il gusto estremo non s’accordi con l’energia[27]».
2. Principio di delicatezza: ha a che fare con una specie di erranza sociale, assume il margine eccessivo = ciò che nella società di massa non può essere oggetto d’alcuna moda: comprendere bene che sono i «margini» ad essere oggetti della moda: la moda = un conformismo, un’imitazione servile del margine (per esempio, oggi, la cravatta sottile, i capelli corti, il collo alzato, la sciarpa): ma ci sono dei margini nel margine, delle marginalità che non possono essere recuperate da nessuna moda. Principio di delicatezza: interstizio assoluto del conformismo e della moda ➝ sorta di osceno sociale (l’inclassificabile), cfr. il sentimento amoroso. Ecco una citazione di Baudelaire. Quincey: per attualizzarla, sostituire «moralista» con una forma più moderna d’arroganza dottrinaria, e si avrà l’osceno puro: «Nello stato di nervosità in cui mi trovo, mi è altrettanto impossibile sopportare un moralista inumano che l’oppio che non è stato fatto bollire![28]» (Un discorso «politico» alla televisione, ecc.).
b. Il sabi, l’amoroso
Principio di delicatezza: sotteso (nelle sue condotte: determinate, orientate) da qualcosa che è come uno stato amoroso. Abbiamo visto, nell’antica civiltà orientale, il tè: campo privilegiato del principio. Un poeta Tang (VIII secolo dopo Cristo), Lotung, descrive le sei tazze di tè (successive) a livello metaforico – o affettivo – che è quello dell’innamoramento. 1a [tazza di tè]: inumidisce il mio labbro e la mia gola; 2a: rompe la mia solitudine; 3a: penetra nelle mie viscere e vi smuove migliaia di strani ideogrammi; 4a: procura una leggera sudorazione, tutto il cattivo della mia vita se ne va; 5a: sono purificato; 6a: nel regno degli immortali[29]. Questo stato amoroso sganciato dal voler-prendere (uno/una partner) può generare tutto un complesso di valori-sensazioni che i giapponesi (in particolare a proposito dello Haiku e dello Zen) hanno chiamato il sabi: «la semplicità, il naturale, il non-conformismo, la raffinatezza, la libertà, la familiarità stranamente mitigata dal disinteresse, la banalità quotidiana squisitamente velata d’interiorità trascendentale[30]». Questo, a mio modo di vedere, definisce assai bene il principio di delicatezza – essendo chiaro che esso genera preziosità soltanto quando il sociale lo inserisce abusivamente in un paradigma di preziosità/grossolanità: è soltanto a partire da un luogo «zotico» che si può parlare di preziosità.
c. La dolcezza. Ultima parola (provvisoria) sulla delicatezza
1. In tutti i nostri esempi, o quasi, una costante: tutte le condotte caratterizzate dal principio di delicatezza: delle specie di proteste attive o elusioni inattese contro la riduzione, non dell’individuo (non si tratta di una filosofia dell’individualismo) ma dell’individuazione (= momento fragile di un individuo, cfr. Deleuze ircam[31]) ➝ ogni volta che nel mio piacere, nel mio desiderio o nella mia pena, sono ridotto dalla parola dell’altro (spesso ben intenzionata, innocente) a un caso che rientra molto normalmente in una spiegazione o in una classificazione generale, sento che vi è non rispetto del principio di delicatezza.
2. Chiamerei molto volentieri il rifiuto non violento della riduzione, l’elusione della generalità tramite condotte inventive, inattese, non paradigmatizzabili, la fuga elegante e discreta davanti al dogmatismo, insomma il principio di delicatezza, lo chiamerei in ultima istanza: la dolcezza. Infatti, personalmente non trovo per niente strano che uno degli «orientamenti» filosofici cha ha più affinità con il Neutro, vale a dire il pirronismo, abbia potuto essere definito dalla dolcezza: «La dolcezza è l’ultima parola dello scetticismo», e Diogene Laerzio: «Alcuni dicono che gli scettici dichiarano che l’apatheia era lo scopo, ma altri che era la dolcezza (praotès)[32]».
3. Si indovina l’aporia: ho «analizzato» un «principio» che mira di fatto a eludere l’analisi (non come metafora (cfr. il tè) ma come «generalità»). L’ho fatto perché vi è un resto: resto = niente da dire in più oltre al fatto stesso: ciò che si può porre, constatare, dire, raccontare: senza descrivere né spiegare: si passa al discorso dell’aneddoto. Concludo dunque questa figura della delicatezza (o della dolcezza) con un aneddoto il cui senso è «impossibile dire meglio»: Bias (uno dei sette saggi): «Ecco come morì: giunto a un’estrema vecchiaia, stava arringando in un processo: interruppe un momento il suo discorso e inclinò la testa sul collo di suo nipote. L’avversario fece la sua arringa, i giudici resero la sentenza a favore dell’accusato difeso da Bias, il tribunale si sciolse, e fu allora che ci si accorse che Bias era morto sul collo del bambino[33]». ➝ «Morte sul collo del bambino», questo è il titolo che vorrei dare a questa figura, perché questa è, forse, la morte che ci si potrebbe augurare.
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il colore (11 marzo 1978)
1. L’incolore: due riferimenti
Due riferimenti, fra molti altri, sui quali voglio soffermarmi un istante, fermo restando che ciò che m’interessa è la corrispondenza (mitica) dell’incolore e del neutro («dei colori neutri»).
1. Lao-Tze: Autoritratto di Lao-Tze: «Sono come incolore (...), neutro come il neonato che non ha ancora provato la sua prima emozione, come senza progetto e senza scopo[34]». a) Il bambino senza emozione? La metafora non sarebbe più valida oggi: il neonato è pieno d’emozioni intense, sconvolgenti, ma quello che vuol dire Lao-Tze: non sono emozioni «culturali», codificate dal sociale. b) Senza progetto e senza scopo = senza voler-prendere.
2. Hieronymus Bosch: Il giardino delle delizie e la «forma» retablo («pannello su cui è appoggiato l’altare e che serve alla decorazione»). Retabli fiamminghi: trittici a cinque superfici, che si chiudono ➝ opposizione del recto e del verso (interno/esterno) ➝ opposizione del colore e del grigiore (chiaroscuro: valore del grigio). In questo modo: battenti chiusi del Giardino delle delizie: chiaroscuro grigio – paesaggio circoscritto da una sfera trasparente (sfera di cristallo dei veggenti).
2. Interpretazioni
Cerchiamo di vedere i valori investiti nell’opposizione del colorato e dell’incolore.
a. Ricchezza/povertà
Retabli, toni di grigio: colori meno cari – retabli aperti (cioè che presentano superfici colorate) soltanto nelle grandi occasioni, o per i gran signori che davano una mancia al guardiano ➝ colore = festa, ricchezza, classe superiore ≠ grigiore, chiaroscuro, «neutro» = quotidianità, uniformità sociale: cfr. la Cina attuale: impressione di Neutro (nei vestiti, uniformi) indistinzione sociale ➝ la festa, il colore ➝ «insegne» del politico, del «popolo» come entità dominante (banderuole). (Retabli: scompaiono all’inizio del XVI secolo, quando la Chiesa non è più committente. In linea generale: inserzione del colore nell’economia. Nel Medio Evo, colori vivi: investimento di denaro, lusso, come le spezie). ➝ Il Neutro è associato miticamente, se non proprio alla povertà, almeno al non-denaro, alla non-pertinenza dell’opposizione ricchezza/povertà.
b. Rovescio/diritto
Nel retablo, incrocio e scambio: il «recto», la superficie «principale», ricca, brillante, colorata = ciò che è normalmente nascosto ≠ il «verso», ciò che è normalmente esposto ➝ il Neutro si dà a vedere in quanto nasconde il colorato. Abbiamo qui a che fare con un’ideologia della «profondità», dell’apparente e del nascosto. Il nascosto = ricco, l’apparente = povero. Tema evangelico (≠ ideologia piccolo-borghese della «polvere negli occhi», farsetto in tessuto simil prezioso, sul davanti ricco, sul retro (non visto) povero). Il neutro = il rovescio, ma il rovescio che si dà a vedere senza attirare l’attenzione: non si nasconde ma non si distingue (= molto difficile): insomma, qualcosa come La lettera rubata ➝ problema che ci si pone: il Neutro è davvero una superficie fratturabile, separabile, dietro alla quale ci sarebbero la ricchezza, il colore, il senso forte? (Cfr. l’inconscio, è davvero quello che c’è dietro il conscio?).
c. Origine
Il giardino delle delizie di Bosch: battenti chiusi del trittico (verso): chiaroscuro grigio, questo chiaroscuro «serve» a rappresentare un paesaggio panoramico, circondato da una distesa d’acqua, con pesanti nubi = il terzo giorno della creazione, secondo la Genesi: istante della prima pioggia, primi alberi e cespugli. E ci si ricorda di Lao-Tze, incolore e indefinito, «neonato che non ha ancora provato la sua prima emozione». ➝ Neutro: tempo del non ancora, momento in cui nell’indifferenziazione originaria cominciano a disegnarsi, tono su tono, le prime differenze: mattina presto, spazio daltonico (il daltonico non può opporre il rosso e il verde ma percepisce delle zone di differente chiarezza, intensità); cfr. silere: il bocciolo, l’uovo non ancora schiusi: prima del senso.
d. Moiré
Il chiaroscuro, figura che si potrebbe dire «colore dell’incolore», induce a un altro pensiero del paradigma come grande principio d’organizzazione. Modello del paradigma: l’opposizione di colori vivi contrastanti (blu/rosso): è precisamente l’opposizione, motore stesso del senso (fonologia). Ora, il chiaroscuro (il Neutro) sostituisce alla nozione d’opposizione quella della leggera differenza, dell’inizio, dello sforzo di differenza, in altre parole della sfumatura: la sfumatura diventa un principio d’organizzazione totale (che copre tutto lo spazio, come per il paesaggio del trittico) che in qualche modo salta al di sopra del paradigma: questo spazio totalmente e come esclusivamente sfumato, è il moiré (di cui si è già parlato in diversi corsi precedenti): il Neutro è il moiré: ciò che cambia finemente d’aspetto, forse di senso, a seconda dell’inclinazione dello sguardo del soggetto.
e. Indistinzione
Ne Il sistema della Moda, l’opposizione significante non passa tra un tale o un talaltro colore, ma massivamente fra il colorato e l’incolore: incolore non vuol dire «trasparente», ma precisamente: di colore non marcato, «neutro», di colore «indistinto»: si assiste così a questo paradosso: il nero e il bianco stanno dalla stessa parte (colori marcati) e ciò che si oppone loro è il grigio (l’ovattato, lo spento, ecc.): il principio d’organizzazione dei colori è semantico (marcato/non marcato). ➝ Si vede dunque che in definitiva la più grande opposizione, quella che affascina e al tempo stesso è difficile a pensarsi, nella misura in cui essa si distrugge ponendosi, è quella della distinzione e della indistinzione, ed è qui la posta in gioco del Neutro, il motivo per cui il Neutro è difficile, provocante, scandaloso: perché implica un pensiero dell’indistinto, la tentazione dell’ultimo (o del primo) paradigma: quello del distinto e dell’indistinto. L’abbiamo visto, questo problema, quello della moda ma anche (confondiamo i generi) quello della teologia negativa. I mistici negativi (Eckhart) hanno visto bene: «La distinzione fra l’indistinto e il distinto è più grande di tutto ciò che può separare due esseri distinti fra loro[35]». Dunque logico che Bosch abbia affidato al chiaroscuro, al Neutro, la «rappresentazione» dell’inizio della creazione, quando quest’ultima era ancora vicinissima, del tutto mescolata all’indistinzione originale, cioè alla materia-Dio. Pensare, modificandolo un po’, al distico di Angelus Silesius:
«Perdi ogni forma (ogni colore) e sarai simile a Dio,
A te stesso il tuo cielo in un calmo riposo[36]».
Pensiero attraverso cui ritroviamo la dichiarazione di Lao Tze: «Sono come incolore e indefinito... ecc.»: il pensiero del Neutro è in effetti un pensiero-limite, ai bordi del linguaggio, ai bordi del colore, perché si tratta di pensare il non-linguaggio, il non-colore (ma non l’assenza di colore, la trasparenza) ➝ il linguaggio e le pratiche codificate che ne discendono recuperano sempre il Neutro come un colore: cfr. il mio piccolo apologo iniziale.
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immagini del neutro (18 marzo 1978)
1. Immagini svalutanti
Salvo presso alcuni filosofi e presso Blanchot, cioè ovunque nella doxa, il Neutro ha cattiva fama: le immagini del Neutro sono svalutanti. Ogni immagine cattiva è racchiusa in un aggettivo cattivo (ancora il ruolo nefasto dell’aggettivo). Ecco alcuni di questi aggettivi cattivi:
a. Sgraziato
Blanchot: «Il neutro non seduce, non attira...[37]». Non essere per nulla seducente = sgraziato; un bambino sgraziato: un bambino che non seduce, contrariamente a tutte le regole dell’infanzia; l’età sgraziata = tra la seduzione dell’infanzia e quella dell’adolescenza = che non è amabile e che ha l’aria di non amare.
b. Sfuggente
Soggetto al Neutro: reputato per fuggire le sue responsabilità, fuggire i conflitti, in una parola, molto infamante: fuggire. In effetti doxa = vive a suo agio nel paradigma (l’opposizione conflittuale): unico modo di rispondere (di corrispondere a un termine): contestarlo. Non immagina che ci sia un’altra risposta: scivolare, andare alla deriva, fuggire; marca infamante che riposa su di un sofisma logico: non opporsi è essere complice. La fuga: terzo termine impensabile per la doxa. Non mi piacciono i racconti dei sogni (e non mi piacciono i sogni), ma questo mi ha interessato perché messa in scena di uno scandalo logico: ambiente tipo supermercato; in genere, la fuga (in sogno): angosciante = incubo. Qui, facendo eccezione: fughe, finte, giravolte: riuscite, leggere, giubilanti, trionfanti (cfr. Marx Brothers o Charlot in un grande magazzino) come se ciò mi venisse da un capovolgimento del Neutro (oppresso, screditato, perduto) in neutro sovrano.
c. Ovattato
Il Neutro: affinità con l’ovattato [feutré]. Applicato a un essere, nozione dispregiativa: misto di mancanza di vivacità, d’ipocrisia, di gusto per le piccole comodità. E qui si può giocare col significante: l’œ chiuso è raro in francese: in sillaba finale: bleu; davanti a una consonante articolata; euse, ecc. + alcune parole isolate: macina [meule], fiacco [veule], muta [meute], feltro [feutre] e neutro [neutre]. La rima neutre/feutre (è l’unica?): esemplare: verità (qui mitica) della rima[38].
d. Flaccido
Fichte (Lezione VII): descrizione sdegnata dello scettico che non ne vuole sapere della conoscenza vera: «In questo falso essere flaccido, disteso, multiplo, vi è una folla di antitesi, di contraddizioni che vivono pacificamente le une accanto alle altre. In lui niente è distinto né separato, ma tutto è confuso, intrecciato. Gli uomini in questione considerano che niente è vero e niente è falso, non amano niente, non odiano niente. Essi non amano né odiano, perché per la riconoscenza, per l’amore, per l’odio, per ogni affetto, occorre quella concentrazione energica di cui essi non sono capaci, perché occorre distinguere e separare all’interno del vario, e scegliere il solo oggetto della propria riconoscenza e del proprio affetto[39]». Idea molto endossale per cui amare vuol dire scegliere, eliminare dunque distruggere «il resto» + assimilazione della molteplicità dei desideri all’indecisione e, da qui, alla mollezza, al «flaccido» = idea vitalista: vive, è vivo soltanto quello che distrugge ciò che lo circonda. (A cui si può opporre che assumere il Neutro rappresenta al contrario un’estrema concentrazione d’energia, non foss’altro che quella necessaria per indossare precisamente l’immagine (falsa, ma inevitabile) del flaccido!).
e. Indifferente
1. Secondo Fichte[40], cinque grandi epoche nella storia dell’umanità. I: lo stato d’innocenza; II: peccato che comincia, trasformazione dell’istinto della ragione in un’autorità che costringe esteriormente; III: stato di peccato perfetto, costituita dall’indifferenza verso ogni verità, dal disprezzo dell’istinto di ragione e di ogni autorità = il mondo attuale: la vita nel genere e per il genere (umano) è scomparsa completamente: non resta più che la vita individuale (= è il Neutro); IV: restaurazione dello Stato e dei costumi (dedicarsi al genere umano: giustificazione che comincia); V: giustificazione completata, o santificazione. (Osservare: schema di svalutazione che ben si applica alle ideologie progressiste) : il Neutro = il decadente, l’individualismo, la mancanza di cura per il collettivo, lo spoliticizzato = «stato di peccato perfetto» + idea di una risalita verso la collettività come ideale: restaurazione («socialismo») ➝ «giustificazione» («comunismo»).
2. Per tornare a Fichte, buon cristallizatore endossale: mancanza di credo = indifferenza = il Neutro («né l’uno né l’altro») = scetticismo ➝ eterno processo allo scetticismo: Fichte... «Questa massima regnante, che non si deve prendere alcun partito, che non ci si deve decidere né pro né contro. La pratica di questa massima si chiama scetticismo ( = falso, perché il pirronismo, non dogmatico, non dice mai si deve...) (...) Il principio di una tale condotta è la mancanza d’amore, anche dell’amore più volgare, dell’amore di se stesso...[41]» (L’amore non si confonde necessariamente con il voler-prendere.) (In realtà, vi sono diverse indifferenze.)
f. Vile
(Con vile intendo ciò che si oppone a «nobile».) Divergenza di valore ben visibile à proposito del silenzio (silenzio: forma a prima vista privilegiata del neutro). Ora, Kojève (riprendendo di fatto il giudizio hegeliano): due silenzi, uno buono e uno cattivo[42].
1. Il buon silenzio: Parmenide e Eraclito:
a. Parmenide: riduce il discorso al silenzio (come gli scettici); ma il silenzio «assoluto» non è un’«incertezza», o un «dubbio», o un’«astensione»; al contrario, è la «certezza» silenziosa, il sapore silenzioso dell’assoluto ineffabile; invece di astenersi dal parlare, Parmenide parla «fino in fondo, parla per arrivare in modo certo o necessario al silenzio definitivo, nel quale e attraverso il quale niente è più dubbio».
b. Eraclito: come gli scettici: il discorso è contraddittorio, senza inizio né fine = è in questo modo, precisamente, la verità, poiché si riferisce ad un mondo che gli corrisponde, la cui essenza (physis, nomos) è costituita da elementi contrari che si succedono senza inizio e senza fine ≠ il cattivo silenzio, il silenzio vile.
2. Lo scetticismo propriamente detto (cattiva incarnazione del Neutro) manca la nobiltà dell’eleatismo e dell’eraclitismo, perché rinuncia a parlare del concetto; cioè rinuncia alla strada che porta alla filosofia: «Lo Scetticismo (teorico) ignora completamente (...) la Filosofia, che è la Questione (propriamente filosofica) del Concetto[43]».➝ In questo modo, lo Scetticismo, soltanto «nobile filosofico» così parmenideo o eracliteo; altrimenti semplice dubbio, errore, non dignus intrare (nella filosofia dalla porta stretta del concetto). Il Neutro si salva soltanto se è filosofico; altrimenti, immagine cattiva: il Neutro scettico rifiuta di riconoscere il trono del concetto, di baciare i piedi del concetto, di farsi baciare da esso.
2. Il neutro come scandalo
Non è difficile vedere qual è il fondo di queste cattive immagini. Ricordiamo: lo spazio «ufficiale» del neutro è lo scetticismo, o discepoli di Pirrone: zetetici (cercano sempre), scettici (esaminano senza trovare), efettici (sospendono il giudizio), aporetici (sempre dubbiosi); dunque sempre immagini del fallimento, dell’impotenza[44]. ➝ Il Neutro subisce il peso, (l’ombra) della grammatica: = ciò che non è né maschile né femminile o (verbi) ciò che non è né attivo né passivo (= deponenti) = ciò che è escluso dalla genitalità, che non è né virile né attraente (femminile); lo si sa essere, miticamente, endossalmente, infamia indelebile. ➝ Non dobbiamo prendere posizione contro questa immagine (o allora, spetta a tutto il corso nel suo complesso essere questa opposizione, non si protesta contro un’immagine, non serve a niente). Quello che si può fare è andare alla deriva spostando il paradigma. ➝ Alla «virilità» o alla carenza di virilità, sostituirei volentieri la vitalità. C’è una vitalità del Neutro: il Neutro gioca sul filo del rasoio: nel voler-vivere, ma fuori dal voler-prendere ➝ penso alla fine della poesia di Pasolini già citata:
«Dio mio, ma allora, cos’ha lei all’attivo?
– Io – (Un balbettio nefando, non ho preso l’optalidon, mi trema la voce di ragazzo malato). Io? Una disperata vitalità[45]».
[Brani tratti da Le neutre. Cours au Collège de France (1977-1978), a cura di Thomas Clerc, Paris, Seuil-imec, 2002. Traduzione di Marco Consolini. Edizione italiana in uscita presso Einaudi].
[1] Dopo aver dato indicazioni sulla durata delle lezioni, sulle vacanze previste ecc., Barthes fornisce una bibliografia (ma preferisce chiamarla «Intertesto») che evitiamo di riprodurre, limitandoci a citare in nota i riferimenti bibliografici presenti negli estratti tradotti. Il primo paragrafo che segue, riproduce quattro brani scelti da Barthes «in guisa d’epigrafi»: «L’inquisizione», di Joseph de Maistre (Œuvres complètes, Genève, Slatkine, 1979, p. 326); «La notte d’Austerlitz», di Leone Tolstoj (Guerre et paix, Paris, Gallimard, 1947, p. 357); «Giovedì 24 ottobre 1776», di Jean-Jacques Rousseau (Rêveries d’un promeneur solitaire, Paris, Garnier, s.d., p. 46) e «L’autoritratto di Lao-Tze» (Henri Maspéro, Mélanges posthumes sur les religions et l’histoire de Chine, II, Le Taoïsme, Paris, SAEP Musée Guimet, 1950, p. 230), brani che abbiamo egualmente scelto di non riprodurre. Allo stesso modo, abbiamo ridotto allo stretto indispensabile l’apparato di note realizzato da Thomas Clerc [N.d.T.].
[2] Orale: Barthes osserva che gli esempi di grammatica sono sempre violenti o morbosi.
[3] Allusione allo slogan elettorale di Valéry Giscard d’Estaing per le elezioni del 1977: «le bon choix pour la France».
[4] Cfr. Armando Verdiglione, Sexe et pouvoir, Paris, Payot, 1976.
[5] Orale: Barthes aggiunge che la farmacopea di un soggetto è rivelatrice quanto la sua biblioteca.
[6] Titolo di una trasmissione radiofonica di «France-Musique» a cui Barthes è stato invitato.
[7] Si tratta di Jean-Baptiste Doumeng, uomo d’affari legato al Partito comunista.
[8] Jean Grenier, L’Esprit du Tao, Paris, Flammarion, 1973, p. 14.
[9] Francis Bacon, «De la dignité et de l’accroissement des sciences», in Œuvres complètes, I, Paris, Charpentier, 1843, p. 241.
[10] Voltaire, «Les anciens et les modernes ou la toilette di Madame de Pompadour» (1765), in Mélanges, IV, Paris, Gallimard, 1961, p. 455.
[11] «Revue de statistique appliquée», n. 4, vol. VII, 1959.
[12] Léon Bloy, Journal, II, Paris, Mercure de France, 1958, p. 225.
[13] La madre di Barthes è morta il 25 ottobre 1977.
[14] Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977, trad. Lidia Lonzi, p. 157.
[15] Cfr. Okakura Kakuzo, L’art du thé, Lyon, Paul Derain, 1963, p. 30.
[16] Ibid., p. 34.
[17] Jean Grenier, cit., p. 144.
[18] Ibid., p. 111. Orale: Barthes ricorda che Tao significa «via», «metodo».
[19] Daisetz Tetaro Suzuki, Essais sur le bouddhisme Zen, I, Paris, Albin Michel, 1972, p. 76.
[20] Okakura Kakuzo, cit., p. 104.
[21] Ibid., p. 80 e p. 111.
[22] Ibid., p. 71.
[23] Les Sophistes. Fragments et témoignages, Paris, puf, 1969, p. 214.
[24] Walter Benjamin, Mythe et violence, Paris, Denoël, 1971, p. 291.
[25] Henri Maspero, Mélanges posthumes sur les religions et l’histoire de la Chine, II, Le Taoïsme, Paris, Flammarion, 1973, p. 17.
[26] Okakura Kakuzo, cit., p. 29.
[27] Paul Valéry, «Prefazione» a Yamata Kikou, Sur des livres japonais, Paris, Le Divan, 1924.
[28] Charles Baudelaire, Les paradis artificiels, Paris, Garnier-Flammarion, 1966, p. 105.
[29] Okakura Kakuzo, cit., p. 32.
[30] Sukuki, cit., III, p. 1328 e 1336.
[31] Barthes ha partecipato, con Gilles Deleuze e Michel Foucault, a un seminario dell’ircam (Institut de Recherche et de Création pour l’art Musical) diretto da Pierre Boulez, dal 17 al 23 febbraio 1978.
[32] Victor Brochard, Les sceptiques grecs, Paris, Vrin, 1959, p. 73.
[33] Diogène Laërce, Vie, doctrines et sentences des philosophes illustres, II, Paris, Grenier-Flammarion, 1965, p. [78]
[34] Jean Grenier, cit., p.26.
[35] Vladimir Lossky, Théologie négative et connaissance de Dieu chez Maître Eckhart, Paris, Vrin, 1960, p. 261.
[36] Angelus Silesius, L’errant chérubinique, Paris, Planète, 1970, p. 90.
[37] Maurice Blanchot, L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, p. 456.
[38] Charles Bruneau, Manuel de phonétique pratique, Paris, Berger-Levrault, 1931, p. 109.
[39] Johann Gottlieb Fichte, Méthode pour arriver à la vie bienheureuse, Paris, Ladrange, 1845, p. 218.
[40] Ibid., Lezione XIV.
[41] Ibid., Lezione XI, p. 320.
[42] Alexandre Kojève, Essai d’une histoire raisonnée de la philosophie païenne, III, Paris, Gallimard, 1973, p. 20.
[43] Ibid., p. 24.
[44] Victor Brochard, cit., p. 56.
[45] Pierpaolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964.
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