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Piero Camporesi
a cura di Marco Belpoliti
2008
Franco Ziliani, Intervista con Piero Camporesi - La cucina è una cosa troppo seria per lasciarla all’improvvisazione
FZ Professor Camporesi può delinearci, brevemente, il suo itinerario intellettuale?

PC Vengo da studi di medicina e poi mi sono laureato a Bologna in lettere classiche. Ho fatto un lungo viaggio attraverso molte esperienze: ho bazzicato laboratori di istologia, gabinetti di osteologia, teatri anatomici e l’osservazione del patologico, dell’aberrante, del non congruo mi è stata molto utile. Posso parlare di un mio amore per l’uomo, per il suo corpo, la fisiologia e i suoi problemi. In Italia la storia della medicina è assai trascurata e ha bisogno di uno svecchiamento, di essere rinnovata anche dall’esterno. La storia della medicina è un frammento della storia sociale, storia del corpo ammalato, del corpo non sano. Forse, in questo quadro, è utile un’operazione di tipo storico-antropologico, come quella che svolgo io, una ventata di aria nuova. Tornando al mio itinerario, ho fatto un lungo tirocinio in campo accademico, sono stato allievo del Calcaterra, e ho pubblicato vari lavori: un’edizione critica degli estratti alfieriani da Ossian, una biografia e l’epistolario di Ludovico di Breme.


È stato influenzato, nei suoi studi, dalla «Nouvelle Histoire francese» e dagli «Annales»?

Nel 1970 mentre nelle aule universitarie ci si accapigliava lungo le rotte dell’utopia più sfrenata, pubblicai l’edizione critica dell’Artusi e feci un corso dedicato ai classici della tavola, che fu molto contestato proprio da coloro che oggi mi celebrano come caposcuola. In quegli anni, il mio corso sembrava la controrivoluzione. Gli Annales, mi chiede, ma in quel momento in Italia gli Annales ero io, perché nessuno, a quel tempo, svolgeva un discorso di quel tipo, attraverso la carne, l’uomo, l’antropologia, la storia alimentare! Ma venivo contestato, ironia della sorte, da una cultura velleitaria, priva di una seria fondazione. Ho letto gli storici francesi, certo, ma soprattutto Tucidide, Gibbon, Gregorovius. I tempi lunghi non li hanno inventati i francesi e le «microstorie», sono una definizione di comodo. Il mio discorso, in qualche modo una storia del sommerso, del rovesciato, va oltre la routine degli Annales, lavori di altissima scolasticità, cui però fa difetto una certa capacità di invenzione.


Lei non si considera uno storico di professione: qual è il suo approccio personale alla storia?

Io non appartengo alla corporazione degli storici in senso stretto, sono uno studioso indipendente e possiedo un mio tempo, che non è quello degli altri. Non essere stato uno storico, può aver rappresentato per me tanto un castigo quanto una misericordia… Penso di aver fatto discorsi nuovi con allacciamenti di varie discipline - intersezioni è il termine oggi in voga -: sociologia, antropologia, critica testuale, saggistica letteraria. Affrontare la storia non da specialisti può comunque portare a risultati soddisfacenti e scientificamente validi. Ci tengo poi al discorso scritto bene: saper scrivere non è uno degli ultimi meriti in un panorama in cui molti hanno rinunciato all’italiano come lingua nazionale, sostituita da strane terminologie tecnico-gergali. L’italiano è una grande lingua di cultura, che ha contribuito a formare l’uomo: non si può assolutamente rinunciare ad innalzare il livelli dell’espressività linguistica! Anche un buon libro di scuola deve essere innanzitutto un bel libro. La storia poi… Il documento in sé non esiste: il documento passa attraverso la sua ricostruzione,  la sua interpretazione, la capacità di renderlo vivo. Negli anni del ’68, aule affollate, una ragazza mi invitò a proseguire per la mia strada dicendomi «Professore, continui così, perché lei sa dar vita ai morti». Fu una grande consolazione in quel momento. Quella ragazza aveva ragione, aveva capito molto di me e dei miei programmi. Quando io studio il passato, entro in una strana crisi di presente e mi traspongo interamente nella materia che sto indagando. È come una capacità di transfert medianico. Il passato lo sento, lo annuso, mi sembra di fare una partita con lui. Il mio è un fatto personale, sono molto geloso della mia originalità, ma rispetto profondamente gli altri metodi di indagine.


Entriamo ora nel vivo della sua opera: motivo dominante de «La carne impassibile» è un oscillazione costante tra esaltazione e reificazione, mortificazione del corpo. Quale concezione del corpo emerge dalle sue indagini?

Io non ho mirato ad una definizione del corpo, ma ho visto come questo veniva utilizzato per giungere al di là della corporalità. Il corpo è un oggetto polivalente, paradossale. Si pensi ai fustigatori, che attraverso la mortificazione miravano alla piena felicità. Altri pensavano che la felicità passasse attraverso il piacere, la buona tavola, la seduzione del corpo. Due punti di vista che in passato sono coesistiti, specie quando la carica religiosa era elevata. C’erano dei parossismi che scatenavano, attorno, sopra e dentro il corpo, con lacerazioni e violenze oggi inimmaginabili. Il carnefice di Stato, che seziona, taglia, spezza, uccide, pagato per questo è il penitente, il carnefice di se stesso: rapporti istituzionali e privati con il corpo. Difficile dire sino a qual punto le voluttà dell’autoflagellazione potessero essere immediatamente delibate - momento sado-masochistico - o legate ai piaceri dello spirito in una visione di corporalità distrutta. Il corpo come diaframma o il corpo come conquista? Nella mentalità popolare, spesso il celeste coincide col terrestre, il corpo con lo spirito, quindi il paradiso, dove si sta bene, è il paradiso dove si mangia bene, dove non ci sono freddo e malattie, dove c’è sicurezza; un luogo caldo, protetto, senza avventure.


Perché oggi si assiste ad un recupero dei temi della corporalità - la ricerca di cibi genuini, la nuova cucina - e della festa (il carnevale, la comicità, ecc.)?

La cucina è una cosa troppo seria per essere giocata sulle piazze o negli assessorati alla cultura… Già nel 1977, nel mio libro La maschera di Bertoldo, dedicato alla letteratura carnevalesca, libro non bachtiano, come molti invece lo ritennero, ho parlato, riferendomi alla cultura comica bolognese del ‘5/600, della corporalità, del problema del riso legato alla festa, del corpo come macchina teatrale, del comico popolare come genere imperniato sul corpo e le sue infrastrutture. Un comico escrementizio, parodico (vedi a questo proposito il saggio di Camporesi Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, compreso nel quarto volume degli Annali della Storia d’Italia - «Intellettuali e potere» Einaudi, 1981 n.d.r.), un riso liberatoria che non ha nulla a che vedere con il sorriso e l’acutezza intellettuale. Credo che questa riscoperta, cui lei accenna, ci sia stata, anche se spesso degenerata in abuso e fraintendimento, in febbre ossessiva del corpo, veicolo di vere e proprie mistificazioni. Per rimanere alla nouvelle cousine, bisogna dire che le competenze degli italiani in campo gastronomico-alimentare sono aumentate…


Fenomeno testimoniato anche dal moltiplicarsi di riviste…

Le riviste tendono ad una commercializzazione del fenomeno, che risponde ad una domanda più vasta. Distinguere tra riviste di consumo e riviste tipo La gola, che fa un discorso scientifico-culturale e non solo di divulgazione spicciola. La società italiana si è trasformata e può capire l’importanza del corpo e del mangiare all’interno del sistema sociale. Può darsi abbia preso coscienza del fatto che un discorso sopra l’uomo, che sia pieno, antropologico, non possa prescindere dal corporale, dall’alimentare, e dalla mitologia che può essere messa in movimento dalla macchina corporale.


Perché le moderne società industriali di massa esorcizzano l’idea della morte?

Io parlerei addirittura di rimozione. Si cerca di ignorare che il male è alle nostre spalle; la morte, in un certo senso, non c’è più: il processo di industrializzazione, come l’abbiamo vissuto, porta ad una logica spietata: come non deve esistere più il vecchio, non deve esistere nemmeno la morte. La morte nascosta sotto il tavolo, come una cosa abietta che non ci appartiene più. È un segno della polverizzazione della nostra società: la morte non è più un aspetto collettivo, sociale, ma privato. Non esiste più un rituale della morte: i funerali con il loro cerimoniale, il saluto al morto, il riconoscimento dei suoi legami con la comunità, la partecipazione, il cordoglio. Non esiste più quella coralità, quel senso comunitario della morte che investiva il corpo sociale. L’odierna, è una società che non sente ed è plasmata come macchina e ha pulsioni solo distruttive.


E del nuovo millenarismo, della psicosi dell’Apocalisse, cosa pensa?

Come osservatore del costume, dirò che si è accentuato il pericolo di Olocausto nucleare e che quindi c’è una specie di reazione istintiva. Il medico, anticamente, capiva che l’uomo era spacciato quando i pidocchi, compagni inseparabili della pelle e dei capelli, abbandonavano il corpo. Anche noi uomini annusiamo il pericolo imminente con le nostre antenne. Il nostro inconscio è potentemente condizionato dalla paura della fine e questa angoscia si esprime nel pacifismo, che può essere criticato in molti modi, ma non quando afferma che l’unica alternativa alla guerra è la pace. Meglio un cattivo pacifista che un buon guerriero, tutto sommato…La paura della fine, dell’apocalisse, è una delle paure storiche dell’uomo, che si ripresenta oggi - non casualmente, siamo in fine millennio - sotto forma di crisi atomica.

[Gazzetta di Parma,  31 dicembre 1983].
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