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Furio Jesi
a cura di Enrico Manera
e Marco Belpoliti
2010
Enrico Manera, Spartakus, o del pensare la rivolta
Tra 1967 e 1969, in una fase in cui sposta l’asse dei suoi interessi dal mondo antico alla sopravvivenza del mito nella letteratura moderna e alla critica dell’ideologia, Jesi scrive Spartakus, un testo rimasto inedito per lungo tempo [1] nel quale l’insurrezione spartachista del 1919 e la tragica fine di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht diventano il punto di partenza per una discussione sulla rivoluzione, sul ruolo della simbolica e della mitologia nell’antagonismo sociale e nel conflitto politico.
Contro la svalutazione marxista-leninista che bollava le posizioni luxemburghiane come spontaneismo irrazionale, Jesi ripensa il significato della rivolta in una versione derivata dalle categorie della scienza del mito e percorsa da un afflato anarchico. Ogni rivolta è sempre inattuale, rappresenta nella sfera politica l’«intersezione del tempo mitico e del tempo storico»[2] ed è in questo senso un agire mitico e infondato «che prepara il dopodomani»: la rivolta muove tra i poli del passato e del futuro, e se in termini strategici è un errore (suscita la reazione e non favorisce la maturazione della coscienza di classe), «in quanto esasperazione delle dominanti della coscienza borghese» è implicitamente «effettivo superamento della società, della cultura e dello spirito borghese» e contribuisce alla «maturazione di una coscienza umana» nel suo complesso. Con la sua meravigliosa insensatezza il gesto di rivolta, che ha sempre qualcosa di privato e di manicheo, crea una sopravvivenza oltre le realizzazioni storiche e contingenti di una rivoluzione realizzata.
La rivolta è «improvviso scoppio insurrezionale [...] che di per sé non implica una strategia» a differenza della rivoluzione che si presenta come un «complesso strategico di momenti insurrezionali coordinati e orientati» alla presa del potere; ma la distinzione è soprattutto, nella coscienza di chi la vive, «una diversa esperienza del tempo». Mentre il tempo della rivoluzione è un tempo lineare, articolato in «prima» e «dopo», storico e quotidiano, il tempo percepito nella rivolta è un tempo mitico e festivo: mentre la rivoluzione «è deliberatamente calata dentro il tempo storico», la rivolta lo sospende e instaura «un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia»[3] .
Il tempo della rivolta è vissuto mitologico: esperienza ad alto livello di significatività in cui si concentra l’intera esistenza individuale e in cui la folgorazione di una vera e propria redenzione pare riscattare chi ne partecipa. La vita stessa rivela il proprio senso in un attimo estatico di autoaffermazione e di pienezza. Il valore della rivolta è nel significato che questa svela a chi ne partecipa e non nella sua realizzazione.

Ogni rivolta si può descrivere come una sospensione del tempo storico. [...]. Nello scontro della rivolta si decantano le componenti simboliche dell’ideologia che ha messo in moto la strategia, e solo quelle sono davvero percepite dai combattenti. L’avversario del momento diviene veramente il nemico, il fucile o il bastone o la catena di bicicletta divengono veramente l’arma, la vittoria del momento – parziale o totale – diviene veramente, di per se stessa, un atto giusto e buono per la difesa della libertà, la difesa della propria classe, l’egemonia della propria classe. Ogni rivolta è battaglia, ma una battaglia cui si è scelto deliberatamente di partecipare. L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una collettività. [...] Lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri [4] simboli personali, il rifugio del tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuale, si ampliano divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio del tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo. [...] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’«haut-lieu» e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città[5] .

Per Jesi, intellettuale militante, la teoria politica di Luxemburg è «il sogno di un rinnovato umanesimo» di stampo rivoluzionario come scrive nel 1970 su «Resistenza. Giustizia e libertà»:

la rivoluzione non sarà una nel tempo: [...] l’emancipazione dal condizionamento borghese, che prelude alla duratura conquista del potere, sarà raggiunta solo se le eredità borghesi [...] verranno colmate dal proletariato di una rinnovata qualità morale, tale da consentire di rivolgere contro la borghesia le sue stesse armi, di superare l’antinomia fra pensiero per sé e pensiero per gli altri, vita a sé e vita con gli altri [...]. Stabilire quale sia il tempo della rivoluzione è contribuire a renderlo prossimo[6] .

Contro «un senso della storia super-umano» si tratta di far valere il fatto che «gli uomini “fanno da sé” la storia» e di considerare l’«utopia» come «concreto alimento ideologico dei movimenti rivoluzionari esterni alla Russia», un’utopia che «un concreto pessimismo distingue da quelle della rivoluzione riuscita una volta per tutte»[7] .
L’utopia è critica dell’esistente: dall’immaginazione viene la spinta ad agire nella storia per realizzare un progetto collettivo orientato all’emancipazione. Opponendosi al classico marxismo-leninismo e rifiutando tanto il socialismo sovietico quanto l’approccio socialdemocratico e la linea politica del PCI, la Nuova sinistra in cui Jesi cercava la propria collocazione sceglieva Luxemburg come punto di riferimento. La questione però è di ordine schiettamente filosofico: in Spartakus il «tempo normale» viene definito «come concetto borghese e frutto della manipolazione borghese del tempo», tale cioè da garantire alla società una «tranquilla durata»[8] .
Jesi suggerisce che la repressione del moto spartachista sia stato il sacrificio cruento che ripristina il tempo normale, il sacrificio dei «diversi» su cui la Germania di Weimar ha ricostruito la sua normalità borghese dopo la guerra, in quanto «ogni vero mutamento di esperienza del tempo è un rituale che chiede vittime umane»[9] .
Per Luxemburg la dimensione emotiva che è sottesa dalla rivolta è indistinguibile dal momento strategico della rivoluzione, ne è la fase preparatoria senza la quale non vi è partecipazione cosciente della massa alla trasformazione della società. Ma il suo tributo di sangue nell’elaborazione della memoria identitaria del movimento rivoluzionario alimenta la mitologizzazione della sconfitta, aggiungendosi alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna come momento di una storia mitica alla quale chi combatte il capitalismo vorrebbe aver partecipato: si tratta della mitologizzazione della battaglia perduta, in cui si contrappongono all’avversario vittime eroiche.

La rivolta, è nel profondo, la più vistosa forma autolesionistica di sacrificio umano. Al tempo stesso [...] la rivolta è un istante di folgorante conoscenza. Di là dalla strategia delle organizzazione classiste, i rivoltosi riconoscono fulmineamente nell’avversario il demone o il venduto ai demoni; i simboli del potere avversario non devono essere incorporati ma distrutti. Questa è dunque libertà e conoscenza. Ma il suo risultato è morte, l’apologia della morte e la mitologizzazione della morte[10] .

La logica del sacrificio funziona sempre a beneficio di chi detiene le chiavi di accesso ai codici del potere simbolico e ha la capacità di raccoglierne i frutti: per questo ogni movimento rivoluzionario contemporaneo avrebbe dovuto abbandonare ogni residuo legame con la posizione metafisica del sacrificio fondatore e così «trovare scampo dal vicolo chiuso dei grandi sacrificatori o delle grandi vittime: e, per trovare scampo, non bastano i grandi sapienti, giacché la storia ci insegna quanto breve sia il passo dalla gnosi al manicheismo»[11] .

[1] Terminato nel 1969 il testo rimase bloccato presso l’editore Silva fino al 1972, quando Jesi recuperò il dattiloscritto: il testo, a cura di Andrea Cavalletti, è stato pubblicato come Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Per la storia del manoscritto cfr. la prefazione di Cavalletti (“Leggere Spartakus”, p. VIII e XXVI).
[2] F. Jesi, Spartakus, cit., p. 56.
[3] Ivi, p. 19.
[4] Ivi p. 84.
[5] F. Jesi Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 23-24, p. 25; il passo compare sostanzialmente immutato in F. Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud (1972), Quodlibet Macerata, 1996, pp. 22-24.
[6] F. Jesi, “Il giusto tempo della rivoluzione”, in «Resistenza. Giustizia e libertà», ottobre, 1970, p. 11.
[7] Ibidem.
[8] F. Jesi, Spartakus, cit., p. 30.
[9] Ivi, p. 31.
[10] Ivi, p. 45.
[11] Ivi, p. 53.
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