Riga n. 40
Gianni Celati
Giacomo Micheletti
«Letteratura come forma di vita, e in fin dei conti come destino»: su Gianni Celati (Riga 40) e Narrative in fuga
«La Balena bianca», 29 Novembre 2019

Nella fotografia che campeggia sulla copertina del nuovo numero di «Riga» a lui dedicato (il 40°, nuova edizione accresciuta del volume n. 28 uscito nel 2008 per la storica collana di Marcos y Marcos, di recente rilevata da Quodlibet) un Gianni Celati poco più che quarantenne è intento a prendere appunti seduto a un tavolaccio di legno, tra l’erba alta. Di sbieco, la gamba destra issata sulla panca, qualcosa – forse una formica di passaggio, forse il polsino sbottonato della camicia – sembra aver momentaneamente catturato la sua attenzione, il suo sguardo: la mano sinistra poggia sul quaderno aperto, tagliato a metà dall’inquadratura; la destra impugna sicura la penna blu, come un’antenna in attesa di una qualche fantasia portata dal vento.
In questa immagine, nel profilo da liceale spettinato di Celati, si riconosce la figura del «sapiente» di cui scrive Emanuele Trevi in un mirabile pezzo del 2011 qui raccolto (cui devo il titolo di queste righe), inteso come colui in grado di «incarnare quello che sa, ed esserne lui stesso la conseguenza»: ed è una sapienza, quella del nostro autore, sempre inquieta e nomadica, “aperta” alla sintonizzazione con quel teatro di visioni in cui può tramutarsi la qualsiasità del mondo, se accolta senza presunzione. Molti dei materiali radunati da Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi (interviste e conversazioni radiofoniche, appunti inediti, testi rari, recensioni e saggi della critica, fotografie…) insistono d’altra parte sul carattere quotidiano e fisiologico della scrittura per Celati, che Nunzia Palmieri, nell’introduzione agli atti del convegno di Cork del 2016, ha a sua volta descritto come «un gesto naturale delle sue giornate». Un gesto della mano, sì, ma anche della voce (Parlato come spettacolo, con eloquente analogia, si intitolava uno dei suoi più brillanti studi giovanili), se è vero che la scrittura per Gianni Celati ha significato in primo luogo anche la ricerca ed elaborazione di un timbro proprio, inequivocabile e (com’è dei classici) imitatissimo. Anche a questo si riferisce Antonio Prete, sodale di lungo corso, quando scrive: «Pochi scrittori, inoltre, hanno una corrispondenza così forte tra il carattere – intendo il modo d’essere, i gesti e gli sguardi e gli affetti – e la scrittura, tra il bonheur dell’affabulazione orale e le forme narrative». Ma la voce di Celati – voce squisitamente letteraria, scritta per essere raccontata, rimessa in circolo – come sanno i suoi molti lettori ha ben poco da spartire con il narcisismo di tanta narrativa contemporanea, con la moderna (e sempre attuale) mitologia di un soggetto sprofondato nella falsa interiorità della propria coscienza.
Quella di Celati, tentando di definire un autentico fil rouge della sua lunga avventura, è piuttosto una pratica artigiana obbediente a una concezione intimamente medianica della scrittura: scrittura come tessitura di storie e apparenze di mondo dimenticate dalla Storia e abbandonate per strada; come auscultazione di voci ai margini di quell’«intelletto collettivo» in cui tutti, inconsapevoli, ci aggiriamo (l’esordio mattoide di Comiche, si sa, nasceva dalla “visitazione” della voce di un vecchio internato). Probabilmente a questo, credo, si riferiva un altro celatiano di rango quando poche settimane fa, ricordando un incontro con lo scrittore in occasione della pubblicazione del suo Ulisse, mi diceva di aver avuto l’impressione che Celati, firmando la sua traduzione testamentale, si fosse definitivamente smarrito nella «stralingua» di Joyce: suo malgrado, come l’antico maestro Calvino, dissolto nella letteratura.
Così, nell’aggiornare il quadro della sua ricezione attraverso una ricca antologia di scritti critici, l’ultimo volume di «Riga» ribadisce il ruolo da protagonista che Celati (narratore, critico, traduttore, professore, documentarista) ha finito per rivestire nella cultura italiana del secondo ’900, capace come pochi di cogliere e rappresentare gli umori cangianti di quella stagione che dai fermenti contestatari dei tardi anni ’60 sfocia nel disincanto degli ’80 e oltre, nella desolazione della provincia postmoderna («l’idea di esodo che dà il cambio a quella di rivoluzione», dice benissimo Daniele Giglioli in una necessaria riflessione del 2011 sulle ambiguità dell’ideologia celatiana).
Contemporaneamente all’uscita di «Riga» 40, la mai abbastanza lodata Quodlibet pubblica anche, per le cure di Jean Talon, Narrative in fuga («Compagnia Extra»), una raccolta di quattordici saggi con cui Celati, in forma di pre- e postfazioni, ha voluto omaggiare alcuni tra i suoi auctores stranieri prediletti (e in massima parte tradotti).
Fin dal titolo, gli scritti qui radunati si presentano come una continua variazione sul tema celatiano par excellence: quello della “fuga” (per cui, dietro l’innocenza furfantesca dell’immagine, valga ancora il rimando al pezzo di Giglioli), intesa ora come rifiuto disperato degli imperativi e dei valori propugnati dalla società (si vedano i saggi della sezione Americani, a partire dalla storica introduzione a Bartleby); ora come scarto liberatorio dalle visioni preconfezionate, e vagabondaggio immaginativo affidato alle parole («soltanto chi è in fuga – scrive – capisce la necessità di “derealizzare” fantasticamente il mondo»); al quale scarto, evidentemente, rimanderà un’ulteriore accezione di “fuga” come ricerca espressiva ai margini della norma linguistica – se non proprio della lingua ufficiale, com’è per la «stralingua» joyceana o il gaelico di Flann O’Brien tradotto da Daniele Benati.
Anche considerata la datazione tarda degli scritti in questione, la maggior parte dei quali rivisti per l’occasione, non stupisce ritrovare qui il più “tipico” saggismo di Celati (si intende, alla buona, il Celati “volatore” degli ultimi decenni, che alla foga intellettualistica della giovinezza supplisce con un sovrappiù di intemperanza polemica nei confronti di una già proverbiale «letteratura industriale»): si tratta, in breve, di una scrittura umorale, apparentemente svagata, sempre sbilenca rispetto alle linee interpretative più consuete; al tempo stesso, basata su veri e propri leitmotiv che la rendono così familiare al lettore: la narrazione come «magia curativa» e trasporto dimentico di sé; le voci del sentito dire, l’ovvietà quotidiana – o «infra-ordinario», con Perec – distesa nello «spazio aperto, dove l’inatteso e l’accidentale hanno la loro casa»; l’elemento individuale come anomalia irriducibile a ogni generalizzazione (la mathesis singularis di barthesiana memoria) ecc.
Per uno scrittore particolarmente sensibile alle analogie musicali quale Celati, l’insistenza di cui sopra su metafore come “variazione sul tema” o “leitmotiv” non dovrebbe stupire: la scrittura celatiana, per riprendere una tra le tante autodefinizioni qui dispensate (in questo caso, via Melville), poggia infatti su «andamenti dispersivi» e altamente iterativi, in un «procedere in larghe volute di frasi, con la grazia del grafomane e l’esuberanza del manierista», che induce talvolta a parlare di piccole suite in prosa. Il corpus saggistico proposto da Jean Talon, anzi, invita finalmente a indagare i modi di «una scrittura che sembra destinata a sperdersi tra i richiami» (così, ancora, per Melville), e che nel suo respiro “zibaldonico”, nella misura spesso di una paginetta di diario, sperimenta continue «modulazioni» argomentative e «giri di note ripetute», improvvisa tra «apici tonici» e «segnali ritmici»; fino, e non è un caso, a rincorrere le «linee di fuga lirica» e i «prestissimo» di Céline, autore fondamentale per Celati (fin dal citato Parlato come spettacolo) che, dai tempi di quella “voce nell’orecchio” utilizzata per spiegare i presupposti “archeologici” e la sperimentazione linguistica di Comiche, con il suo «“staccato” argotico» sembra ora tornare a suggestionare la sbrigliata metaforica jazz del suo vecchio traduttore: così in Guignol’s Band, vetta del comico céliniano, «tutto è variazione sul tema, e il tema è una musica di continue variazioni»; il francese del romanziere maledetto non è più, come negli scritti dei primi anni ’70, un sottosuolo di gerghi e parlate rimosse dalla civiltà, bensì appunto una fuga musicale, o «nenia» (come lo stesso Celati dirà del suo Guizzardi) che allestisce «ambienti sonori, dove più che il senso delle parole conta la musica delle voci farneticanti» e dove, ancora, «tutto è effetto, vento di parole, dove l’immaginazione emerge a folate di visioni seguendo l’onda del fraseggio» (“esattamente” come nel Disordine delle parole di Joyce, in coda al volume).
Si è già capito (in ciò confermando una vera e propria costante del Celati critico, fin dai primi studi su Céline e Beckett) come quella presentata in Narrative in fuga non sia che una lunga galleria di autoritratti camuffati, frammenti di una “poetica per interposta persona” in stretto dialogo con le interviste e i saggi raccolti in Conversazioni del vento volatore (2011) e Studi d’affezione per amici e altri (2016); e che pure offrono, tali frammenti, diversi spunti per un discorso tutto da fare su quella “invenzione della tradizione” che (qui, anche sulla scia di Calvino) interessa diversi autori della nostra tarda contemporaneità.
In un suo importante scritto sulle traduzioni da Twain e London, pubblicato in «Riga», Franco Nasi sottolinea che la storia del Celati scrittore «è la storia di una ricerca di una competenza narrativa, di una voce, di un ritmo narrativo che sia intimamente personale, ad un tempo originale e dipendente dalla sua tradizione più intima». E viene da concludere, a proposito di tradizione, chiamando in causa un brano dell’Omaggio a Flann O’Brien dell’87, là dove Celati suggerisce che «l’ascolto di una tradizione e l’ascolto di una forma di pazzia siano la stessa cosa»:

Il romanzo di Flann O’Brien [At-Swim-two-Birds] apre un transito solitamente ostruito, dove le parole sono chiamate da qualcosa che viene da molto lontano: da un “dolce parlare”, da una intensità che si ascolta nel linguaggio e che trascina con sé le cose da dire. La tradizione non è che questo trasporto delle parole: una intensità di cui cadiamo in balìa, e che porta con sé delle cose da dire.

Ai lettori di oggi e domani, novelli fantasticanti, l’invito a tenere aperto il transito di cui parla Celati, tendere l’orecchio a quei «richiami che nessuno sa dove ci porteranno», un po’ come Alice di fronte alla tana del Bianconiglio.
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