Letteratura e Cucina
La Repubblica, 29 Febbraio 2008
«Chi è Piero Camporesi?», domandava a sé stesso e ai lettori Giorgio Manganelli. Che poi si correggeva: «Che cosa è Piero Camporesi». Era il 1983 e sul professore bolognese - anzi forlivese - docente di letteratura al Dams, bibliofilo e studioso del Seicento, ancora si addensava una nebulosa di bizzarria. Mal si conciliava, nell’opinione di molti, la sua competenza filologica e di storico della letteratura con le accurate indagini che aveva condotto sulla cultura popolare in Emilia Romagna o con quello strano libro intitolato Il paese della fame (uscito dal Mulino nel 1978) in cui analizzava alcuni miti folklorici - il carnevale e la cuccagna, per esempio - nelle loro manifestazioni culinarie, muovendosi fra gli spettri della fame e le prelibatezze della cucia, mischiando teatro di piazza e poesia cortese, e mettendo in scena giganti e uomini-gallina, ciarlatani e mendicanti.
La categoria dell’eccentrico ha accompagnato l’intera carriera di Camporesi, morto nel’agosto di dieci anni fa (era nato nel 1926). A Camporesi, maestro senza scuola, è dedicato il nuovo numero di Riga, la rivista edita da Marcos y Marcos, curato da Marco Belpoliti (il fascicolo viene presentato martedì 4 marzo alla Libreria Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano da Umberto Eco, Giuliano Scabia, Oliviero Ponte Di Pino e lo stesso Belpoliti). Il volume raccoglie i testi di Camporesi e una serie di studi su di lui. Dopo quello compiuto qualche anno fa da Elide Casali, è questo il primo tentativo di chiarire la personalità di un intellettuale fuori dagli schemi disciplinari e che amava inoltrarsi verso la frontiera degli studi umanistici, «un lettore malizioso di testi seicenteschi e anche, direi, scrittore di testi di quel secolo», ipotizzava Manganelli. «Era un irregolare rispetto al mondo accademico», racconta Belpoliti, «aveva studiato prima medicina, poi si era iscritto a Lettere e si era laureato con Carlo Calcaterra, lo stesso professore di Pier Paolo Pasolini, discutendo una tesi su Petrarca. Per molto tempo ha insegnato nelle scuole di avviamento professionale e solo intorno ai quarant’anni è approdato all’Università».
I suoi lavori filologici (l’edizione delle Lettere di Ludovico di Breme e di alcune opere di Vittorio Alfieri) sono apprezzatissimi. Ma è nel 1970 la prima escursione in altri territori: la cura de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi - anche lui critico letterario - che Daniele Ponchiroli e Giulio Bollati gli affidano per conto dell’Einaudi, colpiti dalla sapienza culinaria del professore bolognese e dai risvolti antropologico-culturali che Camporesi rintraccia nel manuale sul quale s’erano formate generazioni di donne. È allora che Manganelli lo scopre. Rimanendo poi folgorato dal volume che segue poco dopo, Il libro dei vagabondi (ancora Einaudi), che raccoglie storie di furfanti e di stravaganti dalla fine del Medioevo all’età barocca. «Fu un libro», racconta Belpoliti, «che accrebbe la fama di Camporesi filologo controcorrente, capace di scoprire un intero universo cancellato dalla storia ufficiale, espunto dai libri dei «vincitori».
La letteratura, sottolinea Belpoliti, appare ai suoi occhi un deposito di saperi, di modi di essere. Critica letteraria e antropologia in Camporesi intrecciano le loro trame. Al fondo dei testi che studia, egli rintraccia le culture materiali, il fare, il mettere in pratica fino a raffinare gli strumenti filologici trasformandoli in punteruoli che scavano nelle condizioni di vita, nelle credenze, nei riti. A un certo punto, racconterà egli stesso, «ho sentito i limiti fortissimi di una preparazione e di una dimensione letteraria. E ho probabilmente cercato di salvarmi con un’operazione di rischio personale». Camporesi è un antropologo, ma un antropologo libresco, nel senso che le testimonianze le cerca solo nei testi. Secondo Umberto Eco, Camporesi «è un signore che entra in una stanza dove c’è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi, che tutti hanno sempre considerato come un’opera d’arte; lui lo prende per un lembo, lo rivolta e ci mostra che sotto quel tappeto brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignota e sotterranea».
Le ricerche di Camporesi si infittiscono e si precisano. Il suo nome si impone, compare sui giornali, anche se - ricorda Belpoliti - alle diffidenze dei letterati, si aggiungono quelle degli storici dell’alimentazione e dei redattori delle Annales. Negli anni Ottanta escono Il pane selvaggio (Il Mulino), un lungo saggio nella Storia d’Italia Einaudi intitolato Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, poi La carne impassibile (Il Saggiatore), Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue (Edizioni di Comunità). Sul Corriere della Sera scrive elzeviri in cui bastona certi tabù alimentari, come la dieta mediterranea, in nome di una cucina che elabora prodotti del territorio.
Intravede i pericoli dell’alimentazione in serie, che dissangua i sapori e le tecniche. Secondo Belpoliti, Camporesi è un intellettuale che, come Pier Paolo Pasolini, si situa nel punto di cesura fra il mondo contadino e quello industriale, ma, a differenza del poeta di Casarsa, non rimpiange il passato, bensì si propone, sulla scorta di Walter Benjamin, di completare i percorsi non completati del passato stesso.
Dalla matassa delle culture e dei saperi popolari infiniti sono i fili che si srotolano. Il pane, per esempio, il pane selvaggio che nelle campagne povere era il pane mitico dei denutriti, che si condiva di suggestioni ipnotiche, fino ai cosiddetti «pani truccati», di cui Camporesi trova tracce in molte ricette, pani dal potere leggermente allucinatorio, come quello mescolato coi semi di papavero e conosciuto dalla medicina galenica. La letteratura medica è un altro dei fili di cui Camporesi segue il tracciato, imbattendosi, per esempio, nelle ricette contro l’insonnia. E poi il sangue. «La storia è sangue», disse una volta, «e anche la letteratura gronda sangue». E, ancora, la corruzione del corpo. Camporesi collaziona le prescrizioni di un medico contemporaneo di Dante, il quale esalta la flebotomia come rimedio generale, inducendo vecchi e giovani «a quel gioco universale, a quel grande spettacolo che era lo svenamento di massa, un grande spettacolo che rientrava nel concetto di purgatio universalis»
Il suo obiettivo è quello di esplorare cunicoli marginali nella storia dei secoli fra il Medioevo e l’età moderna, nei quali, a dispetto della visibilità, è però scorso un fluido tanto sotterraneo quanto produttivo. «Io vorrei far emergere il momento in cui la medicina si libera dalla condanna ecclesiastica del corpo, la lunga battaglia che la medicina conduce per la propria autonomia, per sottrarsi alla giurisdizione del sacerdote». E il risultato di questo processo, i cui segnali si avvertono già nel Cinquecento, aggiunge Camporesi, è quello di veder distinta la malattia, problema del corpo, dal male, problema dell’anima.
Sotto la superficie attestata nei documenti, sostiene Camporesi, esiste uno strato di altri documenti, che non sfuggono allo sguardo insinuante del filologo. Nascono così, negli anni successivi, Le officine dei sensi, La casa dell’eternità, I balsami di Venere, Il brodo indiano, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Le vie del latte, fino a Camminare il mondo. Vita e avventura di Leonardo Fioravanti, medico del Cinquecento (tutti editi da Garzanti).
Camporesi non esclude di provare una qualche forma di nostalgia per l’intensità, ad esempio, di certi modelli corporali propri dei secoli che studia. Ma avverte: «Quanto a me, ho largamente dimostrato che il passato era peggiore del presente, e che era addirittura terrificante». Eppure, in quel peggio c’era qualcosa che doveva sopravvivere, «forse il gusto dell’avventura, della via che andava guadagnata e praticata, della vita non protetta, del gioco personale». La nostalgia prende qui le forme di una «critica dell’abbondanza», che Camporesi adatta ai costumi alimentari praticati oggi nella parte ricca del mondo. «Quel che è certo», concludeva, «è che la povertà crea, l’abbondanza appiattisce».