Riga n. 26
Piero Camporesi
Umberto Eco
Un ghiottone di parole
L'Espresso, 13 Marzo 2008

Dieci anni fa moriva Piero Camporesi, che proprio nei giorni scorsi è stato ricordato in due occasioni. Una a Milano, per l’uscita di un numero a lui dedicato della rivisita “Riga”, curato da Marco Belpoliti, l’altra a Forlì, in un convegno di ben tre giorni dedicato alla sua opera e alle sue  molte traduzioni in varie lingue. Una Bustina non basta a riportare tutti i titoli delle sue opere, uno più affascinante dell’altro, e andateveli a cercare su Internet.
Camporesi nel corso di una quindicina di volumi ha studiato costumi e comportamenti connessi col corpo, il cibo, il sangue, le feci, il sesso, come farebbe uno storico della vita materiale. Ma gli unici documenti su cui ha sempre lavorato, erano testi che appartengono alla storia della letteratura. Salvo che egli ha scoperto o rivalutato testi che le storie della letteratura hanno per lo più ignorato, perché si occupavano di cose “basse” come la cucina, la medicina, o l’agricoltura. Camporesi ha passato invece la vita a rileggerli come testimonianze di un modo di vivere, per lo più ignoto e sotterraneo.
Così ci ha raccontato come nei secoli passati il mondo fosse abitato da vagabondi, saltimbanchi, guaritori, ladri, assassini, pazzi illuminati da Dio, falsi lebbrosi e lebbrosi veri, ha ritrovato i sogni millenari di un paese di Cuccagna, nati in popolazioni oppresse dalla fame, ha riscoperto i riti del carnevale, dei Sabba stregoneschi, delle allucinazioni diaboliche, ha riportato ala luce pagine da cui si comprende come nel passato si avesse una idea diversa del proprio corpo, dell’odore di un formaggio, del sapore del latte, ha riletto, i passaggi dei predicatori religiosi che parlavano dell’Inferno e dei suoi patimenti (il che significava riscoprire una visione del corpo come luogo e occasione di dolore, supplizio, sofferenze interminabili).
Ha guardato come gli uomini mangiavano, cocevano, come schioccavano la lingua deglutendo, come si eccitavano sessualmente attraverso unguenti ed elisir, come nel Diciottesimo secolo fossero state accolte quelle bevande esotiche e (allora) meravigliose che erano il caffè e il cioccolato, come lavorassero i minatori, i tessitori, i barbieri, i chirurghi, i medici e i guaritori, quale fosse l’immagine del povero, del diseredato, del mascalzone, del ladro, dell’assassino, del disperato, ci ha parlato del modo in cui i corpi venivano amati, squartati, nutriti, anatomizzati, divorati, rifiutati, umiliati, e si è soffermato su fibre, intestini, bocche, bubboni, vomiti e prelibatezze.
Tutto insieme? Sì, perché Camporesi, che si occupasse di delizie culinarie o di putrefazioni da lazzaretto, era eminentemente un buongustaio di parole, che lo affascinavano sia che parlassero della crema che delle feci. E valga come assaggio questo stralcio, non si sa se ghiotto o schifato, di elogio e condanna del formaggio.
«Per parecchi secoli e da parte di molti si ritenne che la malignità intrinseca del formaggio, la sua “nequizia”, venisse preavvertita e segnalata dal suo odore, per non pochi nauseabondo e stomachevole, indice sicuro di materia “morticina”, di residuo in decomposizione, materia sfatta e deleteria, sostanza putredinosa nociva alla salute e terribile corruttore degli umori… scrematura della parte escrementizia del latte, delle scorie nocive, coagulo della parte infima, melmosa e terrestre del bianco liquido, copula… delle peggiori sostanze, al contrario del burro che ne è la parte migliore, eletta, pura… “Res foeda, graveolens, immonda, putridaque”, il formaggio niente altro è che… cibo da lasciare agli uomini di vanga e ai poveracci… indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto, in una parola, di straccioni e villani, soliti a mangiare brutti cibi… I mangiatori di formaggio appaiono a Pietro Lotichio simili a degenerati amatori e sordidi degustatori delle sostanze putrefatte… Cibandosene si metteva in moto un meccanismo incontrollabile di moltiplicazione di quei vermi che, anche normalmente, “in viscerium latibulis pullulant”. Questa era l’orribile verità: il formaggio generava negli oscuri meandri dei visceri, nelle latebre del budellame umano, incrementandone la preesistente putredine, piccoli, schifosi mostri… Se dalla putredine si formavano spontaneamente, casualmente lumache e chiocciole; se dal letame bovino scaturivano scarafaggi, bruchi, vespe, fuchi; se dalla rugiada uscivano farfalle, formiche, locuste, cicale, come poteva non accadere - si chiedeva il medico tedesco - che negli intestini dell’uomo, viscidi di pituita, di residui di decomposizione, non si verificasse lo stesso processo che dava vita incontrollata e sorprendente (al di fuori della copula e dell’inseminazione dell’uovo) a miriadi di orridi animalcula? Perché non ritenere che anche nel basso ventre, letamaio dell’uomo, non fermentasse la stessa immondizia, la stessa brulicante equivoca fauna dei “piccoli animali”, degli “animaluzzi”, piaga crudele dell’uomo».
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