Riga n. 27
Pop Camp
Giuseppe Montesano
Fuochi artificiosi. Ecco la bibbia Camp, antologia di una sensibilità indefinibile, tra il pop e il superkitsch.
Diario - Anno XIII n. 10, 15 Giugno 2008

Come una bomba a orologeria culturale a scoppio ritardato, arriva oggi PopCamp, uno stupefacente numero della rivista «Riga», diretta da Marco Belpoliti e Elio Grazioli e pubblicata da Marcos Y Marcos, dedicato al Camp e curato con virtuosa dissipazione da Fabio Cleto. Che cosa è il camp? Beh, se il lettore sarà così felice e dissennato da attraversare le seicentocinquanta pagine di questo libro, forse lo saprà: e il «forse» è di rigore là dove il sapere come categoria definita è messo in stato di ipnosi dal Camp. E allora subito, nello scritto iniziale di Cleto, il lettore è gettato non in una definizione, ma in un pantheon: «Il camp comprende infatti figure disparate come Oscar Wilde e Madonna, Andy Wharol e Greta Garbo, David Bowie e Judy Garland, Fassbinder e Elton John… Erté e le Sister of Perpetual Indulgence, Angela Carter e Aubrey Beardsley, Versailles e Gore Vidal, la mar-chesa Luisa Casati e Robert Mapplethorpe, la mai-troppo-compianta Regina Madre e Pedro Almodòvar… Il camp non può essere affrontato riparando alla sua eterogeneità…».
Di questa eterogeneità le pagine di «Riga» traboccano letteralmente, e sono un viaggio unico nella sensibilità estetica degli ultimo quarant’anni. Si comincia con l’impagabile Under the Hill di Aubrey Beardsley, con la stra-kitschissima Storia di Venere e Tannhauser, in un delirio che va da Venere che masturba l’Unicorno a Thannhauser che è una sorta di Superman frivolo e ultrafashionable; si passa poi per Tom Wolfe, per Alberto Arbasino, per Truman Capote; e si è spiazzati da immagini di Luigi Ontani, disegni di Mirando Haz, le icone di Francesco Vezzoli, in una foresta di foto e fotogrammi che vanno dalla Marilyn di Gli uomini preferiscono le bionde indietro fino a Greta Garbo e avanti fino a Twiggy e James Bond e Barbarella e Flash Gordon e John Galliano e Jean Paul Gaultier. E ci sono poi saggi serissimi e divertenti, come quello di Gian Piero Piretto, Il dandismo degli stacano-visti: con immagini kitsch e camp senza saperlo dei gadget staliniani e sovietici degli anni ’30 e ’50; c’è Le macchine divine, dove Luca Scarlini fa una esilarante storia del camp ecclesiastico; o il saggio di Steve Dixon sull’estetica camp nella Cyborg Performance Art, e così i saggi di Cleto e Rosalind Krauss e Merlino e molti altri. E, nella difficoltà di attraversare la nozione di camp, c’è una sorta di via regia, che è contenuta in alcune frasi di Cristopher Isherwood in Il mondo di sera, e in una ventina di paginette di Susan Sontag intitolate Note sul Camp. Ed ecco un dialogo di Isherwood: «Vedi, il vero camp ha sempre un fondamento serio; non si può fare del camp su una cosa che non si prende sul serio. Non è prendersi gioco di essa; no, è farne un gioco. Si tratta di esprimere ciò che è fondamentalmente serio in termini di umorismo, artificio, di eleganza. In gran parte l’arte barocca è camp religioso, e il balletto camp d’amore… Mi segui?» «Non sono proprio sicuro; dammi qualche esempio. Mozart, che te ne pare?» «Oh, sì, Mozart è certamente camp! Beethoven, invece, no…» «Non so se l’ho afferrata o no: si direbbe una categoria piuttosto elastica». «E invece non lo è affatto: ammetto che darne una definizione sia terribilmente difficile - bisogna rifletterci e sentirla per intuito, come il Tao di Lao Tzu…». Ma per la Sontag una definizione diventa possibile, eccola: «1) Per cominciare, assai generalmente: il Camp è una particolare forma di estetismo. È un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico. Questo modo, il modo camp di guardare alle cose, non si basa sulla bellezza ma sul grado di artificio e di stilizzazione. 2) Esaltare lo stile significa ridurre il contenuto, o addurre neutralità nei confronti del contenuto. Ovviamente, la sensibilità camp è disimpegnata e spoliticizzata, o perlomeno apolitica. 3) Non esiste solo una visione camp, un modo camp di guardare alle cose. Il camp è anche una qualità individuabile negli oggetti e nel comportamento…».
Siamo finalmente, di colpo, al centro della questione. Il camp sarebbe per la Sontag una metamorfosi dell’estetismo come si era concretizzato al suo culmine in Wilde: un eccesso che abbia il potere di sospendere il giudizio sulla realtà. In questo senso tutto il cosiddetto post-qualcosa in cui siamo immersi sarebbe imparentato con il camp, e di lì con l’estetismo, ma un estetismo che è però contraddittorio: non più l’estetismo del dandy che eroicamente deve distinguersi dalla massa, ma è un estetismo che potrebbe tranquillamente diventare di massa. Non è affatto casuale che il Camp sia nato o si sia definito all’incrocio con il Pop, vale a dire con una forma di arte che operava un gioco di prestigio: fare dell’arte sempre e ancora di élite, in senso commerciale e autoriale, ma farla diventare un’arte di massa ispirata ai prodotti di massa.
Cleto scrive nel suo Sipario: «Faceva così il suo clamoroso ingresso in scena il Pop Camp: un gusto o sensibilità marcati dalla maiuscola che, nel celebrare il travestimento delle "cose che sono ciò che non sono", nel prediligere artificio, superfici e frivolezza a natura, impegno e contenuto, proclamava la sublimazione del Kitsch piccolo-borghese…». Non sembra esserci dubbio, il camp è, in qualche modo ibrido, al fondo della sensibilità che regge lo spettacolare, e il mondo dello spettacolo: o forse anche quella société du spectacle di cui parlava proprio negli anni delle Note sul camp Guy Debord? Il camp appare  contraddittorio: l’ironia che lo guida aiuta a leggere le apparenze dello spettacolo come un gioco, ma il suo gusto per l’apparenza lo confina nel regno di ciò che non incide più sulla realtà. In questo senso il gusto Pop Camp sarebbe un parassitismo della società di massa, un raccogliere da essa ciò che ne fuoriesce e gustarlo come unico? Difficile dirlo. Ma quella definizione di distanza dalla politica di cui parlava la Sontag: potrebbe anche essere un sentiero per sottrarsi alla trappola della politica? La sensibilità camp è inafferrabile da parte dei reazionari, perché la sua radice sta nell’elogio della diversità, una diversità così estrema da voler cercare i suoi simboli nel cuore stesso di ciò che è di massa, mitizzato e si potrebbe dire omologato. Sul blocco costituito dalla società di massa, un blocco che collega consumi di massa a idee e sentimenti di massa, il camp agisce come un elemento di disgregazione. Ciò che era fissato in separazioni nette, come maschile/femminile, alto/basso, colto/popolare, autentico/falso, si scioglie e si rimescola, rompe i confini e rende difficile l’egemonia di un pensiero unico; la forte componente omosessuale e di rimescolio dei generi che è alla radice del camp, ne fa una manifestazione di per sé sospinta ai margini e allo stesso tempo le concede quell’oltranza che la cosiddetta normalità vieta; e l’ironia offre al camp la possibilità di non lasciarsi ingannare neanche da se stesso.
Ma la società dello spettacolo agisce implacabile, e riproduce di nuovo per le masse ciò che il camp aveva sottratto alla cultura di massa: la sferza dell’Economico ha imparato a servirsi di tutto, persino di Pop e Camp, e a utilizzarli facendoli tornare come spettri, inoffensive mode prive di qualsiasi forza di opposizione o di scandalo: privandoli, per massimo sfregio, anche di quel divertimento senza il quale il camp non esiste. È questa una deriva inarrestabile? Ne siamo preda? Si può esserne anche protagonisti non passivi? E poi, per giocare un po’: ma Moana Pozzi è camp o pop? E la Sinistra, è camp o trash? Le oltre seicento pagine di PopCamp non offrono risposte chiuse, ma solo e per fortuna domande e suggestioni, taglienti cocci di intelligenza e luccicanti paillettes di ironia. I Babelici, quelli che hanno capito che siamo entrati da tempo nel Post-Tutto, non si perdano assolutamente PopCamp: la Modernità è sempre e ancora la matrigna perversa e gaudente di tutti noi.
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