Riga n. 27
Pop Camp
Stefano Bartezzaghi
Quante strade portano al «Camp»
La Repubblica, 26 Giugno 2008

Ma come fa a piacerti Renato Zero? Correvano, o meglio passeggiavano, gli interminabili '70 e davvero non era facile capire cosa la compagna di liceo più freak e ricca, con le sue vacanze a Londra e le sue dissimulate raffinatezze, trovasse di affascinante e divertente nel carrozzone, nelle svenevolezze, nei travestimenti, nel neomelodico, nel patetico della Zerolandia. Come spesso accade, la soluzione dell'enigma era contenuta nella sua stessa formulazione: adorava Zero proprio perchè era stata a Londra.
E così ci si sarebbe davvero stupiti, a colpi di «ma va' là» e di «non scherziamo», se una prefigurazione del professor Fabio Cleto avesse allora assicurato che il circo di Triangolo ed EroZero non era poi molto lontano da quel Flowers di Lindsay Kemp che invece deliziò più di una domenica pomeriggio dei non-sorcini; o dal culto di Ziggy Stardust di David Bowie, già membro della stessa compagnia di Kemp, o infine dalla boccaccesca (anche nel senso delle boccacce) baracconata di The Rocky Horror Picture Show.
Ognuno ha i suoi sentieri per entrare nel camp: Fabio Cleto - professore di letteratura inglese all'Universita di Bergamo - del camp è il maggior studioso italiano e compila elenchi di eloquenti coppiette: Oscar Wilde e Madonna, per esempio; o Fassbinder ed Elton John, Versailles e Gore Vidal, la regina madre e PedroAlmodovar... L'accostamento tra Zero e Kemp non è certo più stravagante di questi, e la realtà è che non si può parlare del camp senza con ciò stesso fame almeno un poco.
Così il numero della rivista Riga, diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli, dedicato al pop camp (il camp nell'era delle mode di massa) e curato da Fabio Cleto, è diventato un discreto caso di camp esso stesso: nella quantità, estendendosi sino a riempire quarantatre capitoli distribuiti in due volumi (editore Marcos y Marcos; I vol. 352 pagine, 25 euro; II vol. 288 pagtne, 25 euro); nella forma, che mutua quella di un teatrino, tra siparietti, «tirate» e intermezzi; nel metodo degli accostamenti di autori e argomenti, dall'opera lirica sino al camp sovietico e a quello ecclesiastico. La stessa rivista prende l'occasione per un cospicuo restyling grafico curato da Paola Lenarduzzi, che la trasforma in una collana di libri. All'usuale scansione di antologie della letteratura critica, testimonianze e testi inediti, poco noti o scritti per l'occasione, si aggiunge un sontuoso apparato iconografico, vero saggio figurativo diffuso lungo iI volume: da Bette Davis nei panni della regina Elisabetta al performer Juan Ybarra travestito da alieno in The Museum of Fetished Identity, passando da Audrey Beardsley, Liza Minnelli, David LaChapelle e Lou Reed. Più facile che definire il camp è negargli lo statuto di corrente, forma d'arte, concetto, categoria o - peggio che peggio - scuola. Accostando le copertine dei due volumi di Riga si ricostruisce lo sguardo delta modella di «Ciglia in fiore, una fotografia dei 1965 in cui due corona di petali circondano gli occhi. Il camp sara dunque una fantasia vegetale, la natura che si trasforma in maquillage, una creatura fitomorfa che ci scruta?
E' una «sensibilità», si dice, riprendendo lo storico saggio di Susan Sontag (qui riproposto) che già nel 1964 ne aveva scorto, dietro alle ammiccanti allusioni, le fondative elusioni. Il camp è un «cifrario privato» che dopo gli anni Sessanta diventa pop, il segreto del travestimento che diventa esibizione smaccata, nel passaggio dalle eccentricità clandestine di fine Ottocento alla scena dello spettacolo globale.
Oggi anche i dizionari italiani conoscono la parola «camp», e la defmiscono come «affettato, artificioso, manierato». Il raro uso che se ne fa forse enfatizza anche troppo la pur innegabile connotazione di estetica gay e lesbica. Se, come voleva Susan Sontag, il camp mette tutto fra virgolette, («non una lampada ma una "lampada", non una donna, ma una"donna"») e finisce col diventare «il trionfo dello stile ermafrodita», allora il suo legame originario con la cultura gay è destinato a divenire meno sostanziale, a sublimarsi e a farsi metodo di lavoro e sguardo. «ll Camp è completamente ingenuo o totalmente consapevole», dice ancora Sontag, e questa propensione all'ambiguità travolge tutti quegli schemi categorici di cui i teorici si sono accorti quando sono caduti: alto e basso, bello e brutto, naturale e artificioso, tragico e comico,kitsch e trash. «Gli uomini sono donne come tutte le altre», disse un giorno Groucho Marx: e il camp segnò un altro punto a suo favore.
Se poi pensiamo che l'enfatica alchimia dei sincretismi stilistici ha come esito la trasformazione del serio in frivolo ci accorgiamo che il potenziale di espansione del camp non trova, nella contemporaneità, limiti visibili. Che fare, del resto? Mettere paletti alle paillettes? Chiudere la gabbia quando le piume di struzzo sono già scappate fuori?
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