Luigi Sampietro
Stranezze a tutto «camp»
Sole 24ore, 10 Agosto 2008
Stranezze a tutto «camp»
Sole 24ore, 10 Agosto 2008
Tra pochi mesi la parola compie cent'anni (1909), ma ancora non sappiamo bene da dove venga. Chi se ne intende sa che cosa significa, ma - ecco un altro «ma» - il difficile sta nel comunicare che cosa si intenda per «camp». Grosso modo equivale al «kitsch», termine che usano tutti per indicare qualcosa di pacchiano, volgare, «di cattivo gusto». Già, ma che cosa vuol dire «di cattivo gusto»? E poi: «cattivo» secondo il gusto di chi? Anche perché le nozioni di «camp» e «kitsch» non sono sovrapponibili: non si elidono. E, ammesso che il «camp» sia anche «kitsch», bisogna subito dire che è soprattutto da intendersi come un uso raffinato e consapevole di qualche «item», cioè articolo (romanzo, fumetto, film; o, anche, objet d'art, capo di abbigliamento, mobile di arredamento, materiale di consumo) che appartiene - anzi,apparteneva - nel giudizio delle famiglie perbene, al «trovarobato». Alle seconde scelte, che diventano «camp» quando cerchiate d'alone.Le cose stanno più o meno così, ma non proprio. Proviamo a spiegarci in un altro modo. E buttiamoci sul sesso. Supponiamo di dover far capire a un marziano o a un extragalattico proveniente da un mondo in cui non esiste né la morte né la riproduzione, che cosa sia il frisson che provano gli umani per una faccia, un certo modo di camminare o una scollatura sul fondoschiena; e, andando avanti - oltre la natura - che cosa ci sia di seducente in una scarpina, in una parrucca o nel rossetto su di una bocca sormontata da un paio di baffi. «Di gusti non me ne intendo», direbbe il nostro ospite sbattendo le antenne e strisciando sul pavimento (perché diverso da noi e privo di piedi).
Ecco: forse ci siamo. Ma l'astuto lettore è invitato a non mettere l'accento sull'aspetto omosessuale (che pure c'è, nel «camp») quanto sul succitato frisson. Su ciò che ci muove, ci tocca, ci adesca. In una parola, sulla sensibilità. E la sensibilità, si sa, è un po' come la poesia. Non nel senso che sia la stessa cosa (ohibò!), ma nel senso che pone lo stesso problema di definizione cui si trovò davanti Benedetto Croce nel famoso incipit, quando, nel tentativo di svelare l'arcano, dovette arrangiarsi a dire prima di tutto che cosa «non» fosse essa poesia. E così è per il «camp». Provatevi a fare degli esempi a chi se ne intende e vedrete quanti «no» vi cascheranno addosso!
Comunque - dicono - il «camp» si riconosce quando c'è appunto quel frisson - estetico ed erotico (ma a freddo, si capisce) - per ciò che è artificiale: per una riscoperta in forma di citazione: per una pacchianeria indossata come haute couture (anche se ormai la haute couture ha assorbito certi aspetti del «camp», che a sua volta ha décampé. Cioè, si è fatto più in là). Il «camp» è un po' come lo spirito: non lo si può chiamare o programmare. Ma lo si può riconoscere e cercar di descrivere. O, almeno, si può cercar di descrivere il frisson. Il «camp» è il riutilizzo (per finta) del superato, del passé e dello sdato: è la tragedia di ieri che oggi fa ridere ma che ci piace rivedere. I film sul delitto d'onore reinterpretati da un «lui» che ha i peli sulle orecchie e da una «lei» che è un manichino, ma quel che più conta sono il taglio di capelli ( con brillantina) e i reverts del doppiopetto. Il «camp» infine ha, come ho detto, un risvolto sessuale - omosessuale - che però poteva valere, almeno mi pare, quando c'erano altri standard e i gay erano considerati invertiti, cioè «contro natura». Con l'affermarsi dell'idea che «tutto è cultura » - e che anche in materia di sesso si può scegliere - l'artificialità è diventata il solo modo di essere. Si è sostituita all'idea stessa di natura. E dunque la stranezza o diversità della sensibilità «camp» non è più una stranezza. E, come di notte tutti gatti sono grigi, il sospetto è che nel crepuscolo del postmoderno la periferia - il marginale - sia diventato centro, e ciò che era «camp» sia diventato «classico». Un ossimoro sì, ma anche una forma di conformismo. Lo snobismo di massa, praticato da tutti. Ed è il «camp-pop».
Come in tutte le cose c'è un «prima» e c'è un «dopo». Il fatto centrale (e dalli!) nella storia del «camp» è il saggio di Susan Sontag, Notes on «Camp» (1964). Ma ci sono anticipazioni (nei fatti e negli scritti) e code (teoriche e critiche). Fabio Cleto, che ha una conoscenza enciclopedica dell'argomento, ha raccolto testi e chiose, commenti e ipotesi in due volumi che vanno da Beardsley a Firbank, da Cyril Connolly a Tom Wolfe, da James Purdy a Truman Capote, e da Christopher Isherwood ad Alberto Arbasino. E, poi, da Jan Harold Brunvand a Thom Andersen, da Jack Babuscio a Rosalind Krauss, e da Gian Piero Piretto a Steve Dixon. Un'antologia indispensabile. Per non rimanere spiazzati. Fuori campo.
Ecco: forse ci siamo. Ma l'astuto lettore è invitato a non mettere l'accento sull'aspetto omosessuale (che pure c'è, nel «camp») quanto sul succitato frisson. Su ciò che ci muove, ci tocca, ci adesca. In una parola, sulla sensibilità. E la sensibilità, si sa, è un po' come la poesia. Non nel senso che sia la stessa cosa (ohibò!), ma nel senso che pone lo stesso problema di definizione cui si trovò davanti Benedetto Croce nel famoso incipit, quando, nel tentativo di svelare l'arcano, dovette arrangiarsi a dire prima di tutto che cosa «non» fosse essa poesia. E così è per il «camp». Provatevi a fare degli esempi a chi se ne intende e vedrete quanti «no» vi cascheranno addosso!
Comunque - dicono - il «camp» si riconosce quando c'è appunto quel frisson - estetico ed erotico (ma a freddo, si capisce) - per ciò che è artificiale: per una riscoperta in forma di citazione: per una pacchianeria indossata come haute couture (anche se ormai la haute couture ha assorbito certi aspetti del «camp», che a sua volta ha décampé. Cioè, si è fatto più in là). Il «camp» è un po' come lo spirito: non lo si può chiamare o programmare. Ma lo si può riconoscere e cercar di descrivere. O, almeno, si può cercar di descrivere il frisson. Il «camp» è il riutilizzo (per finta) del superato, del passé e dello sdato: è la tragedia di ieri che oggi fa ridere ma che ci piace rivedere. I film sul delitto d'onore reinterpretati da un «lui» che ha i peli sulle orecchie e da una «lei» che è un manichino, ma quel che più conta sono il taglio di capelli ( con brillantina) e i reverts del doppiopetto. Il «camp» infine ha, come ho detto, un risvolto sessuale - omosessuale - che però poteva valere, almeno mi pare, quando c'erano altri standard e i gay erano considerati invertiti, cioè «contro natura». Con l'affermarsi dell'idea che «tutto è cultura » - e che anche in materia di sesso si può scegliere - l'artificialità è diventata il solo modo di essere. Si è sostituita all'idea stessa di natura. E dunque la stranezza o diversità della sensibilità «camp» non è più una stranezza. E, come di notte tutti gatti sono grigi, il sospetto è che nel crepuscolo del postmoderno la periferia - il marginale - sia diventato centro, e ciò che era «camp» sia diventato «classico». Un ossimoro sì, ma anche una forma di conformismo. Lo snobismo di massa, praticato da tutti. Ed è il «camp-pop».
Come in tutte le cose c'è un «prima» e c'è un «dopo». Il fatto centrale (e dalli!) nella storia del «camp» è il saggio di Susan Sontag, Notes on «Camp» (1964). Ma ci sono anticipazioni (nei fatti e negli scritti) e code (teoriche e critiche). Fabio Cleto, che ha una conoscenza enciclopedica dell'argomento, ha raccolto testi e chiose, commenti e ipotesi in due volumi che vanno da Beardsley a Firbank, da Cyril Connolly a Tom Wolfe, da James Purdy a Truman Capote, e da Christopher Isherwood ad Alberto Arbasino. E, poi, da Jan Harold Brunvand a Thom Andersen, da Jack Babuscio a Rosalind Krauss, e da Gian Piero Piretto a Steve Dixon. Un'antologia indispensabile. Per non rimanere spiazzati. Fuori campo.