Stefano Bartezzaghi
Nel labirinto di Manganelli
La Repubblica, Febbraio 2006
Nel labirinto di Manganelli
La Repubblica, Febbraio 2006
Scomparso nel 1990, non avrà fatto in tempo a esercitare sul termine visibilità e sui suoi usi odierni il suo appassionato talento di degustatore di parole. Ma certo quando si pensa a Giorgio Manganelli – questo scrittore così grande e singolare – si è come naturalmente portati a farsene un’immagine di maestro appartato e poco conosciuto. Qualcuno a cui, per l’appunto, mancava la “visibilità”. Poi con una breve scorsa al suo curriculum, vita e opere, ci si rende invece conto che dai primi anni Sessanta (quando a quasi quarant’anni la sua vocazione si trasformò in attività letteraria) il presunto appartato ha scritto libri per editori di prima grandezza, e questi libri sono stati recensiti dai critici e scrittori migliori (ma non migliori di lui); ha pubblicato, con grande frequenza e su giornali diffusissimi, recensioni, commenti di argomento politico e sociale e reportage sui suoi viaggi per vaste porzioni del mondo; ha collaborato a programmi radiofonici, per esempio al progetto collettivo delle Interviste impossibili; è stato consulente, traduttore, prefatore per le maggiori case editrici italiane; ha tenuto intense corrispondenze con i migliori intellettuali suoi contemporanei.
In una parola, e malgrado le sue presumibili attitudini, Manganelli è stato sempre presente, e pressoché sempre al centro dei luoghi topici della cultura italiana. L’impressione di romitaggio che se ne può avere, dunque, è assolutamente manganelliana: non nasce da una geografia e da una topologia esteriore, ma direttamente dalla scrittura. Puntiamo i telescopi sulla galassia Manganelli, la scopriamo vasta e ancora vastamente sconosciuta, non ci accorgiamo che era da sempre visibile anche a occhio nudo: un fenomeno degno di Edgar Allan Poe e della sua lettera rubata (o “trafugata”, come recita la traduzione dello stesso Manganelli).
Dall’associazione e dalle cure di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, due accaniti esploratori della galassia manganelliana, è nato ora un volume che rimarrà fondamentale per chiunque vorrà approfondire le questioni poste dall’opera di Manganelli. Si tratta del venticinquesimo numero della rivista-libro Riga (edita da Marcos y Marcos, pagg. 536, € 18,00). Il format di Riga non cambia: dopo un editoriale di introduzione sono raccolti alcuni brevi testi letterari in omaggio allo scrittore (o all’artista) trattato; poi alcuni testi inediti o dispersi dell’autore; poi un’antologia delle recensioni e dei saggi risalenti all’epoca dell’uscita delle opere; poi una raccolta di saggi scritti ora, e appositamente per il numero di Riga; infine una sezione di opere visive.
Il numero dedicato a Manganelli eccelle in ognuna delle sue parti. La parte diciamo creativa è affidata a due racconti rispettivamente di Franco Cordelli e di Michele Mari e da un testo teatrale di Tiziano Scarpa, che con uno dei suoi migliori exploit mette in scena le tragicomiche visite ricevute nello stesso pomeriggio dal giovane Manganelli, secondo un celebre aneddoto (lo scrittore si vide arrivare in casa prima la giovane figlia, che non vedeva da quindici anni, e poi un Carlo Emilio Gadda, offesissimo perché riteneva – assurdamente - che il primo romanzo di Manganelli fosse una parodia della sua Cognizione del dolore).
Fra i testi manganelliani, oltre a una serie di interventi giornalistici mai raccolti in volume, compare un diario inedito di appunti critici degli anni Cinquanta. Fra le recensioni d’epoca abbiamo testi di Calvino, Arbasino, Guglielmi, Pedullà, Citati, Sanguineti, Giuliani, Mengaldo. Fra i saggi scritti per Riga Domenico Scarpa affronta il tema del rapporto fra Manganelli e Primo Levi sulla questione della chiarezza e dell’oscurità della scrittura; Belpoliti parla delle qualità di osservatore sociale di Manganelli; Cortellessa e Graziella Pulce (già autrice di un fondamentale Giorgio Manganelli. Figure e sistema per Le Monnier) si diffondono sul Manganelli topologo, spartendosi il campo: a Cortellessa toccano le due città abitate, Milano e Roma; a Pulce toccano i viaggi.
Manganelli non scrisse romanzi, forma aborrita: cosa ne pensava del romanzo lo si evince dai “cento piccoli romanzi fiume” di una sola pagina l’uno che compongono Centuria (e a cui Mario Barenghi dedica qui il saggio “Narrazione”). La sua scrittura procedeva per elaborazioni e digressioni, confrontandosi con i generi della dissertazione e del trattato: elucubrazioni, commenti, architetture verbali. La scrittura di Manganelli è un labirinto, e lo è in senso tecnico: un labirinto in cui ogni vicolo è cieco, e costruito con ricchezza voluttuosa. Il suo fortunato, e da sempre ripetuto, slogan della “Letteratura come menzogna” allude a questa condizione. Il suo “libro parallelo” da Pinocchio la mostra all’opera. Coltivava infatti una concezione enigmatica (ancora una volta: in senso tecnico, non per suggestione) della letteratura: ogni parola ne nasconde altre, parallele e sepolte, da congetturare scomponendo le componenti della parola come in un acrostico. Non è certo che una parola abbia significato, disse una volta Manganelli: certamente ha un suono. E il principio vale per parole, frasi, blocchi di testo, macchie di inchiostro, lapsus, capolavori della letteratura universale e poi per i pensieri e per le cose, che sono a loro volte parole che vivono una speciale condizione.
Che si applichi all’amore (in Manganelli, più un continente che un sentimento), all’inferno, alla “natura discenditiva” dell’uomo, alle profezie di Nostradamus o all’andare al cinema un pomeriggio a Campobasso, la scrittura di Manganelli mette sempre in opera una vicenda di fughe e di ritorni, dove paradossi e ossimori soffocano i significati per lasciare intendere il sordo pulsare del senso. Roba difficile? Al contrario: di facilità irrisoria, e irridente, se solo il lettore accetta di inoltrarsi nel testo essendo sempre tallonato da una incolmabile voragine (come accade al protagonista di una pagina di Centuria).
L’ultima generazione di critici e di scrittori, di cui il numero di Riga dà un’ottima rappresentanza, eleva Manganelli a maestro perché cessa di considerarlo come un divertente manierista, un epifenomeno gaddiano di tendenza circense: ne ha scoperto la segreta aderenza all’epoca in cui è vissuto e ha accolto, con gratitudine, la sua concezione parallela, polidimensionale e risonante di ogni testo.
In una parola, e malgrado le sue presumibili attitudini, Manganelli è stato sempre presente, e pressoché sempre al centro dei luoghi topici della cultura italiana. L’impressione di romitaggio che se ne può avere, dunque, è assolutamente manganelliana: non nasce da una geografia e da una topologia esteriore, ma direttamente dalla scrittura. Puntiamo i telescopi sulla galassia Manganelli, la scopriamo vasta e ancora vastamente sconosciuta, non ci accorgiamo che era da sempre visibile anche a occhio nudo: un fenomeno degno di Edgar Allan Poe e della sua lettera rubata (o “trafugata”, come recita la traduzione dello stesso Manganelli).
Dall’associazione e dalle cure di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, due accaniti esploratori della galassia manganelliana, è nato ora un volume che rimarrà fondamentale per chiunque vorrà approfondire le questioni poste dall’opera di Manganelli. Si tratta del venticinquesimo numero della rivista-libro Riga (edita da Marcos y Marcos, pagg. 536, € 18,00). Il format di Riga non cambia: dopo un editoriale di introduzione sono raccolti alcuni brevi testi letterari in omaggio allo scrittore (o all’artista) trattato; poi alcuni testi inediti o dispersi dell’autore; poi un’antologia delle recensioni e dei saggi risalenti all’epoca dell’uscita delle opere; poi una raccolta di saggi scritti ora, e appositamente per il numero di Riga; infine una sezione di opere visive.
Il numero dedicato a Manganelli eccelle in ognuna delle sue parti. La parte diciamo creativa è affidata a due racconti rispettivamente di Franco Cordelli e di Michele Mari e da un testo teatrale di Tiziano Scarpa, che con uno dei suoi migliori exploit mette in scena le tragicomiche visite ricevute nello stesso pomeriggio dal giovane Manganelli, secondo un celebre aneddoto (lo scrittore si vide arrivare in casa prima la giovane figlia, che non vedeva da quindici anni, e poi un Carlo Emilio Gadda, offesissimo perché riteneva – assurdamente - che il primo romanzo di Manganelli fosse una parodia della sua Cognizione del dolore).
Fra i testi manganelliani, oltre a una serie di interventi giornalistici mai raccolti in volume, compare un diario inedito di appunti critici degli anni Cinquanta. Fra le recensioni d’epoca abbiamo testi di Calvino, Arbasino, Guglielmi, Pedullà, Citati, Sanguineti, Giuliani, Mengaldo. Fra i saggi scritti per Riga Domenico Scarpa affronta il tema del rapporto fra Manganelli e Primo Levi sulla questione della chiarezza e dell’oscurità della scrittura; Belpoliti parla delle qualità di osservatore sociale di Manganelli; Cortellessa e Graziella Pulce (già autrice di un fondamentale Giorgio Manganelli. Figure e sistema per Le Monnier) si diffondono sul Manganelli topologo, spartendosi il campo: a Cortellessa toccano le due città abitate, Milano e Roma; a Pulce toccano i viaggi.
Manganelli non scrisse romanzi, forma aborrita: cosa ne pensava del romanzo lo si evince dai “cento piccoli romanzi fiume” di una sola pagina l’uno che compongono Centuria (e a cui Mario Barenghi dedica qui il saggio “Narrazione”). La sua scrittura procedeva per elaborazioni e digressioni, confrontandosi con i generi della dissertazione e del trattato: elucubrazioni, commenti, architetture verbali. La scrittura di Manganelli è un labirinto, e lo è in senso tecnico: un labirinto in cui ogni vicolo è cieco, e costruito con ricchezza voluttuosa. Il suo fortunato, e da sempre ripetuto, slogan della “Letteratura come menzogna” allude a questa condizione. Il suo “libro parallelo” da Pinocchio la mostra all’opera. Coltivava infatti una concezione enigmatica (ancora una volta: in senso tecnico, non per suggestione) della letteratura: ogni parola ne nasconde altre, parallele e sepolte, da congetturare scomponendo le componenti della parola come in un acrostico. Non è certo che una parola abbia significato, disse una volta Manganelli: certamente ha un suono. E il principio vale per parole, frasi, blocchi di testo, macchie di inchiostro, lapsus, capolavori della letteratura universale e poi per i pensieri e per le cose, che sono a loro volte parole che vivono una speciale condizione.
Che si applichi all’amore (in Manganelli, più un continente che un sentimento), all’inferno, alla “natura discenditiva” dell’uomo, alle profezie di Nostradamus o all’andare al cinema un pomeriggio a Campobasso, la scrittura di Manganelli mette sempre in opera una vicenda di fughe e di ritorni, dove paradossi e ossimori soffocano i significati per lasciare intendere il sordo pulsare del senso. Roba difficile? Al contrario: di facilità irrisoria, e irridente, se solo il lettore accetta di inoltrarsi nel testo essendo sempre tallonato da una incolmabile voragine (come accade al protagonista di una pagina di Centuria).
L’ultima generazione di critici e di scrittori, di cui il numero di Riga dà un’ottima rappresentanza, eleva Manganelli a maestro perché cessa di considerarlo come un divertente manierista, un epifenomeno gaddiano di tendenza circense: ne ha scoperto la segreta aderenza all’epoca in cui è vissuto e ha accolto, con gratitudine, la sua concezione parallela, polidimensionale e risonante di ogni testo.