Paolo Mauri
Saul Steinberg. Come raccontare il mondo in un infinito disegno
La Repubblica, 12 Agosto 2005
Saul Steinberg. Come raccontare il mondo in un infinito disegno
La Repubblica, 12 Agosto 2005
Saul Steinberg frequentava gli artisti. Fece una passeggiata con Giacometti guardando le vetrine e facendo apprezzamenti sulle nature morte delle pasticcerie con i dolci arabi colorati di blu (il blu, commentavano, non è un colore che si mangia). Aveva incontrato Duchamp e una volta, nel ’58, Ricasso che lo aveva rimproverato di non assomigliare all’idea che aveva di lui. Conversando con Jean Frémon, Steinberg mette le mani avanti: «Non parleremo subito di arte, vero? Comunque non subito. Gli artisti sono spesso mediocri quando si esprimono sull’arte».
La rivista Riga dedica il numero 24, curato da Marco Belpoliti e Gianluigi Ricuperati (Marcos y Marcos, pagg. 412, euro 18), interamente a Saul Steinberg e la questione che ricorre un po’ ossessivamente nel tempo (i materiali raccolti coprono un arco cronologico molto ampio) è proprio quella dell’arte: di quale arte è titolare Saul Steinberg. Harold Rosenberg scriveva, nel 1974: «Il fatto che rimanga comunque un outsider nel mondo artistico è un problema che la teoria dell’arte dovrà prima o poi affrontare». E poco oltre: «Nessuna storia dell’arte è riuscita ad assegnargli un posto fisso, probabilmente perché egli è stato in grado di inghiottire ogni stile e rigurgitarlo in un’unica massa di scarti rinvenibili nel presente». In un saggio del 1983 Ernst H. Gombrich commenta: “Se non mi sbaglio, Steinberg non compare nei sacri testi sull’arte del XX secolo, né è nominato nei corsi che pretendono di spiegare e classificare i vari “ismi” di cui si pensa sia composto il movimento moderno».
Non basta. In un saggio molto ben costruito del 2002 Dore Ashton risponde, o sembra rispondere, così: «Steinberg rappresenta una fusione unica di vari mestieri: poeta, filosofo, romanziere, cronista, disegnatore, pittore, vignettista, calligrafo e architetto». Come dire: era troppe cose per ancorarlo ad una definizione sola. Il suo disegno era ed è anche scrittura, racconto, lettura del mondo. Non per nulla, aggiungerei, piace agli scrittori. E questo è un fatto: ci sono artisti che piacciono ai letterati e non sempre sono gli stessi che piacciono ai critici d’arte. Ma con gli scrittori ha anche legami particolari: Dore Ashton accenna a Gogol: «che nella sua opera mi sembra onnipresente». E a Rilke, che aveva scritto: «Non mi ero mai reso conto prima di quante facce ci sono: esiste una quantità di esseri umani, ma le facce sono molte di più perché ogni persona ne ha più di una». (Una frase che sembra scritta per Tullio Pericoli).
Steinberg disegnava e indossava buffe maschere, giurando che l’artista contiene identità diverse. Rosenberg dice che Steinberg è un virtuoso del cambio di identità. Forse anche perché, rumeno di nascita, aveva studiato in Italia ed era poi stato costretto ad emigrare per via delle leggi razziali diventando americano. Aveva “indossato” diverse lingue e quindi diverse maschere. Girare il mondo gli piaceva (l’orgoglio di essere arrivato a Manaus in Amazzonia!) e gli piaceva incontrare persone. Si è già detto di Ricasso, con cui giocò al cadavre exquis inventato dai surrealisti, la composizione di un testo in cui ciascuno scrive una frase senza leggere quell’altro. Nabokov lo invitò in Svizzera: «Mi guardò con un’aria indulgente e incredula. Ho l’impressione che mi abbia preso per un disegno».
Possiamo considerarla una battuta o una rivelazione: Steinberg era ciò che disegnava e il suo disegno era ed è una lettura del mondo, ma questo non spiega come mai il suo lavoro sia fuori dai canoni artistici di oggi. Troppo diretto? Eppure l’arte, licenziato da tempo il sublime, ha lavorato molto con il comico e con il paradosso. I visitatori che si aggirano nei musei di arte contemporanea hanno spesso ancora il passo adatto ai musei di arte antica: nel senso che hanno in testa il sublime e l’eroico. Poi magari si trovano davanti i rottami di Rauschenberg o le macchine di Tinguely. Già i musei di arte contemporanea, che proliferano ovunque, sono di per sé un paradosso: cosa ne faremo tra vent’anni, quanto conterranno arte invecchiata e comunque non più strettamente contemporanea? E poi chi promuove gli artisti contemporanei alla gloria del museo, se il museo riflette l’oggi (dunque tutt’al più la scelta o l’azzardo di un curatore) e non la storia che decanta il vissuto e aiuta a fissare criteri e canoni?
Il comico coniugato all’arte non è ancora entrato nel senso comune. E se il comico nasce da uno sguardo trasversale e antiretorico o dal ribaltamento di una tradizione, ecco che tanta arte che smonta, per esempio, l’oggetto o il corpo, si candida ad una lettura comica dei medesimi, più ancora dei beffardi giochi di Duchamp, in fondo artista di testa e di sberleffo. Non è iscritto al clan dei comici anche Cattelan, con la sua arte boutade, che, provocando, irride innanzitutto se stessa? Si dirà, ma è arte?
La recente scomparsa di Emilio Garroni, che sull’arte si esercitato per tutta la sua vita di pensatore e di didatta, mi ha indotto a riprendere in mano Senso e paradosso, dove ci si interroga proprio sullo statuto dell’arte e dell’estetica e sulla difficoltà di trovare un approccio adeguato ad una materia tanto sfuggente quando si tratta di azzardare delle definizioni. Steinberg non entra nei libri di storia dell’arte perché i libri (i manuali) di storia dell’arte raramente insistono sulla definizione dei confini. Dove arriva il territorio che stiamo mappando? Succede anche per le storie della letteratura che difficilmente accolgono, per esempio, i fumetti o i generi popolari, anche se fior di indagini e saggi riguardano appunto fumetti e gialli. D’altra parte quando si parla di letteratura e di arte si naviga nell’indefinibile. O meglio: ci si serve di concetti e modelli che ogni epoca deve ridefinire o riaggiustare sulla scorta dell’accaduto.
Steinberg piaceva a Roland Barthes, che ne leggeva i disegni, commentandone l’impatto comunicativo. E certo Steinberg offre una complessa geografia di segni, talvolta puntata sull’ironia, o sull’umorismo (non dimentichiamo che è nato come vignettista del Bertoldo) talvolta, invece, sulla rappresentazione, con degli scambi significativi, delle inversioni di ruolo, come l’impronta digitale al posto del volto, il coniglio al posto del cervello e via seguitando. Come tutti i grandi umoristi Steinberg ha un fondo malinconico e, se posso dire, vagamente mortuario. Penso ai suoi omini che si auto-beffano, cioè al disegno che nega se stesso, o alle città americane raccontate come in un film dai tratti gentili: non si dimentichi che Steinberg è un architetto e sa guardare una città. Ci sono dunque molti Steinberg, coerentemente con l’idea dell’artista che si traveste, dell’io che è, come diceva il poeta, “un altro”.
Charles Simic (in Adelphiana e ora in Riga) lo ha raccontato così: «Ha disegnato una mano sinistra che disegna una mano destra nell’atto di disegnare la sinistra. Ha disegnato la lettera E seduta a un tavolo mentre mangia la lettera A. Ha disegnato Sisifo che spinge un enorme punto di domanda su per la collina». Escher? I caricaturisti del secolo scorso? Gli antenati di Steinberg sono parte di un capitolo “aperto” ma già il suo grande amico e compagno di studi, lo scrittore Aldo Buzzi (che ha compiuto il 10 agosto 95 anni) aveva tirato fuori Hogart, Gorsz e Daumier. Un altro capitolo dovrebbe raccontare i suoi compagni di strada.
Steinberg fece a braccio una breve commemorazione di Alexander Calder (la si legge sempre in Riga) di cui era molto intimo e ricorda «Sandy come un essere danzante». «Non sono mai mancate occasioni per ballare, fin dal nostro primo incontro nel 1942, nello studio che dava sulla Seconda Avenue. Tanta musica da ballo e il memorabile 14 luglio del ’46 a Parigi, e tanti party danzanti nella cucina di Roxbury, circondati da mobiles che ruotavano appesi al soffitto e da piccoli mobiles che vibravano e saltellavano sui tavoli e sulle mensole, mentre i danzatori si trasformavano a loro volta in grandi mobiles…»
La scultura in movimento di Calder è dunque una scultura danzante, una lettura acrobatica del movimento nello spazio.
Viene in mente una dichiarazione di Steinberg sul fatto che la parola artista comprende anche i trapezisti che danzano nel vuoto. Steinberg disegna mobiles? Ecco un tema da approfondire. D’altra parte Calder, si sa, gioca molto sul circo nelle sue sculture. Steinberg è, infine, molto vicino a Chaplin (lo ha notato Barthes). Il cerchio si chiude. Non è abbastanza per promuoverlo artista?
La rivista Riga dedica il numero 24, curato da Marco Belpoliti e Gianluigi Ricuperati (Marcos y Marcos, pagg. 412, euro 18), interamente a Saul Steinberg e la questione che ricorre un po’ ossessivamente nel tempo (i materiali raccolti coprono un arco cronologico molto ampio) è proprio quella dell’arte: di quale arte è titolare Saul Steinberg. Harold Rosenberg scriveva, nel 1974: «Il fatto che rimanga comunque un outsider nel mondo artistico è un problema che la teoria dell’arte dovrà prima o poi affrontare». E poco oltre: «Nessuna storia dell’arte è riuscita ad assegnargli un posto fisso, probabilmente perché egli è stato in grado di inghiottire ogni stile e rigurgitarlo in un’unica massa di scarti rinvenibili nel presente». In un saggio del 1983 Ernst H. Gombrich commenta: “Se non mi sbaglio, Steinberg non compare nei sacri testi sull’arte del XX secolo, né è nominato nei corsi che pretendono di spiegare e classificare i vari “ismi” di cui si pensa sia composto il movimento moderno».
Non basta. In un saggio molto ben costruito del 2002 Dore Ashton risponde, o sembra rispondere, così: «Steinberg rappresenta una fusione unica di vari mestieri: poeta, filosofo, romanziere, cronista, disegnatore, pittore, vignettista, calligrafo e architetto». Come dire: era troppe cose per ancorarlo ad una definizione sola. Il suo disegno era ed è anche scrittura, racconto, lettura del mondo. Non per nulla, aggiungerei, piace agli scrittori. E questo è un fatto: ci sono artisti che piacciono ai letterati e non sempre sono gli stessi che piacciono ai critici d’arte. Ma con gli scrittori ha anche legami particolari: Dore Ashton accenna a Gogol: «che nella sua opera mi sembra onnipresente». E a Rilke, che aveva scritto: «Non mi ero mai reso conto prima di quante facce ci sono: esiste una quantità di esseri umani, ma le facce sono molte di più perché ogni persona ne ha più di una». (Una frase che sembra scritta per Tullio Pericoli).
Steinberg disegnava e indossava buffe maschere, giurando che l’artista contiene identità diverse. Rosenberg dice che Steinberg è un virtuoso del cambio di identità. Forse anche perché, rumeno di nascita, aveva studiato in Italia ed era poi stato costretto ad emigrare per via delle leggi razziali diventando americano. Aveva “indossato” diverse lingue e quindi diverse maschere. Girare il mondo gli piaceva (l’orgoglio di essere arrivato a Manaus in Amazzonia!) e gli piaceva incontrare persone. Si è già detto di Ricasso, con cui giocò al cadavre exquis inventato dai surrealisti, la composizione di un testo in cui ciascuno scrive una frase senza leggere quell’altro. Nabokov lo invitò in Svizzera: «Mi guardò con un’aria indulgente e incredula. Ho l’impressione che mi abbia preso per un disegno».
Possiamo considerarla una battuta o una rivelazione: Steinberg era ciò che disegnava e il suo disegno era ed è una lettura del mondo, ma questo non spiega come mai il suo lavoro sia fuori dai canoni artistici di oggi. Troppo diretto? Eppure l’arte, licenziato da tempo il sublime, ha lavorato molto con il comico e con il paradosso. I visitatori che si aggirano nei musei di arte contemporanea hanno spesso ancora il passo adatto ai musei di arte antica: nel senso che hanno in testa il sublime e l’eroico. Poi magari si trovano davanti i rottami di Rauschenberg o le macchine di Tinguely. Già i musei di arte contemporanea, che proliferano ovunque, sono di per sé un paradosso: cosa ne faremo tra vent’anni, quanto conterranno arte invecchiata e comunque non più strettamente contemporanea? E poi chi promuove gli artisti contemporanei alla gloria del museo, se il museo riflette l’oggi (dunque tutt’al più la scelta o l’azzardo di un curatore) e non la storia che decanta il vissuto e aiuta a fissare criteri e canoni?
Il comico coniugato all’arte non è ancora entrato nel senso comune. E se il comico nasce da uno sguardo trasversale e antiretorico o dal ribaltamento di una tradizione, ecco che tanta arte che smonta, per esempio, l’oggetto o il corpo, si candida ad una lettura comica dei medesimi, più ancora dei beffardi giochi di Duchamp, in fondo artista di testa e di sberleffo. Non è iscritto al clan dei comici anche Cattelan, con la sua arte boutade, che, provocando, irride innanzitutto se stessa? Si dirà, ma è arte?
La recente scomparsa di Emilio Garroni, che sull’arte si esercitato per tutta la sua vita di pensatore e di didatta, mi ha indotto a riprendere in mano Senso e paradosso, dove ci si interroga proprio sullo statuto dell’arte e dell’estetica e sulla difficoltà di trovare un approccio adeguato ad una materia tanto sfuggente quando si tratta di azzardare delle definizioni. Steinberg non entra nei libri di storia dell’arte perché i libri (i manuali) di storia dell’arte raramente insistono sulla definizione dei confini. Dove arriva il territorio che stiamo mappando? Succede anche per le storie della letteratura che difficilmente accolgono, per esempio, i fumetti o i generi popolari, anche se fior di indagini e saggi riguardano appunto fumetti e gialli. D’altra parte quando si parla di letteratura e di arte si naviga nell’indefinibile. O meglio: ci si serve di concetti e modelli che ogni epoca deve ridefinire o riaggiustare sulla scorta dell’accaduto.
Steinberg piaceva a Roland Barthes, che ne leggeva i disegni, commentandone l’impatto comunicativo. E certo Steinberg offre una complessa geografia di segni, talvolta puntata sull’ironia, o sull’umorismo (non dimentichiamo che è nato come vignettista del Bertoldo) talvolta, invece, sulla rappresentazione, con degli scambi significativi, delle inversioni di ruolo, come l’impronta digitale al posto del volto, il coniglio al posto del cervello e via seguitando. Come tutti i grandi umoristi Steinberg ha un fondo malinconico e, se posso dire, vagamente mortuario. Penso ai suoi omini che si auto-beffano, cioè al disegno che nega se stesso, o alle città americane raccontate come in un film dai tratti gentili: non si dimentichi che Steinberg è un architetto e sa guardare una città. Ci sono dunque molti Steinberg, coerentemente con l’idea dell’artista che si traveste, dell’io che è, come diceva il poeta, “un altro”.
Charles Simic (in Adelphiana e ora in Riga) lo ha raccontato così: «Ha disegnato una mano sinistra che disegna una mano destra nell’atto di disegnare la sinistra. Ha disegnato la lettera E seduta a un tavolo mentre mangia la lettera A. Ha disegnato Sisifo che spinge un enorme punto di domanda su per la collina». Escher? I caricaturisti del secolo scorso? Gli antenati di Steinberg sono parte di un capitolo “aperto” ma già il suo grande amico e compagno di studi, lo scrittore Aldo Buzzi (che ha compiuto il 10 agosto 95 anni) aveva tirato fuori Hogart, Gorsz e Daumier. Un altro capitolo dovrebbe raccontare i suoi compagni di strada.
Steinberg fece a braccio una breve commemorazione di Alexander Calder (la si legge sempre in Riga) di cui era molto intimo e ricorda «Sandy come un essere danzante». «Non sono mai mancate occasioni per ballare, fin dal nostro primo incontro nel 1942, nello studio che dava sulla Seconda Avenue. Tanta musica da ballo e il memorabile 14 luglio del ’46 a Parigi, e tanti party danzanti nella cucina di Roxbury, circondati da mobiles che ruotavano appesi al soffitto e da piccoli mobiles che vibravano e saltellavano sui tavoli e sulle mensole, mentre i danzatori si trasformavano a loro volta in grandi mobiles…»
La scultura in movimento di Calder è dunque una scultura danzante, una lettura acrobatica del movimento nello spazio.
Viene in mente una dichiarazione di Steinberg sul fatto che la parola artista comprende anche i trapezisti che danzano nel vuoto. Steinberg disegna mobiles? Ecco un tema da approfondire. D’altra parte Calder, si sa, gioca molto sul circo nelle sue sculture. Steinberg è, infine, molto vicino a Chaplin (lo ha notato Barthes). Il cerchio si chiude. Non è abbastanza per promuoverlo artista?