Riga n. 21
Gulliver
Paolo Di Stefano
«Gulliver» la rivista mai nata che voleva cambiare l'Europa
Corriere della Sera, 12 Settembre 2003

«Provo una immensa stanchezza, una stanchezza definitiva... In breve, in una parola, io mi ritiro». È il 30 maggio 1964 e la confessione non lascia dubbi. Roland Barthes non ne può più. Quella faccenda rischia di esasperarlo. È da almeno cinque anni che si discute di Gulliver, una rivista che vorrebbe rinnovare la cultura internazionale, ma che è rimasta pura utopia. Ora che, un quarantennio dopo, un' altra rivista, Riga, propone nel numero 21, a cura di Anna Panicali, la storia di Gulliver, possiamo conoscere le ragioni del fallimento di un' impresa culturale tanto ambiziosa. Una cosa è certa. Gulliver è la rivista mai nata che ha mobilitato più intelligenze, ha prodotto più discussioni, piani, lettere, riunioni, speranze, delusioni, fratture e meno pagine. Cioè zero. Anzi, a essere esatti, di pagine ne ha prodotte, e tante, ma si tratta solo di materiali preparatori o di proposte che poi convergeranno in altre sedi. In effetti, si trattava forse di un progetto troppo ambizioso per quei tempi. Siamo in un momento cruciale per l' Europa. In Italia comincia a entrare in discussione l' idea di un engagement direttamente connesso alle sorti del Pci, la letteratura neorealista comincia a invecchiare, i Gettoni di Vittorini cercano di interpretare il nuovo corso della narrativa e sotto la cenere cova la stagione della neoavanguardia. In Francia si formano comitati d' azione per protestare contro la guerra nell' Africa del Nord e Sartre agita i suoi Temps Modernes. In Germania un dopoguerra carico di sensi di colpa produce, nel ' 59, i due capolavori di Uwe Johnson e Günter Grass. Con la guerra di Algeri, però, le inquietudini della sinistra intellettuale europea finiscono per incontrarsi in un documento comune: il Manifesto dei 121, una dichiarazione sul diritto all' insubordinazione dei cittadini e dei soldati francesi. Vittorini spalleggia l' opposizione francese: va a Parigi, incontra Sartre, Mascolo e Blanchot, manifesta con loro, torna in Italia e informa Calvino, Mila, Bilenchi, Strehler. L' Europa è percorsa da un filo rosso che collega gli scrittori. Un comune desiderio di elaborare punti di vista politici senza rinunciare alla specificità letteraria. «Qualcosa di decisivo accade e cerca di affermarsi», scrive Maurice Blanchot a Sartre. Tutto ciò si può rappresentare in un progetto davvero nuovo: una rivista di «critica totale». Sartre si tirerà indietro, ma gli altri continuano. E sono tanti. Per la Francia: Blanchot (il vero capofila), Mascolo, Butor, Antelme, Bataille, Leiris, Nadeau, des Forêts, Barthes, Starobinski. Per l' Italia: Vittorini, Leonetti, Calvino, Pasolini, Moravia. Per la Germania: Enzensberger, Johnson, Grass, Ingeborg Bachmann, Martin Walser. Insomma, il Gotha della letteratura di sinistra. Verrà coinvolta, all' inizio, anche Iris Murdoch, per aprire all' Inghilterra, ma declinerà. Non una rivista «di cultura», non un Politecnico internazionale o un Menabò più esteso, ma «una rivista di pensiero fatta da scrittori». Una rivista «collettiva» e aperta al mondo. Il 1961 è un incrociarsi di lettere per definire gli scopi e i caratteri di questa impresa: comunicare al di là delle frontiere «valori che spesso restano confinati entro i limiti nazionali». È quanto scrive programmaticamente Mascolo. Enzensberger si dà da fare in Germania per rendere sensibili i giovani scrittori tedeschi verso un' idea di critica «intellettualmente distruttrice». Si cerca di estendere il progetto anche agli Stati Uniti. Si trovano gli editori per ogni Paese: Einaudi per l' Italia, ma non senza tentennamenti (come in Francia accade con Gallimard e in Germania con Suhrkamp). Ma i veri motori sono i francesi. Blanchot non risparmia tutta la sua enfasi nel tracciare le linee teoriche: «Siamo tutti consapevoli che ci avviciniamo a un momento estremo, a quello che chiamerei una mutazione dell' epoca». Ma apre questioni che lette oggi, in tempi di Europa unita, di globalizzazione e di guerre totali, risultano sorprendentemente anticipatrici. Per esempio: «Tutti i problemi sono d' ordine internazionale... il ritorno all' idea tradizionale di pace è ormai radicalmente escluso...». Il fatto è che, mentre viene eretto il muro di Berlino e le tensioni politiche si infiammano ovunque, i francesi pensano a «una ricerca di verità, per la quale l' affermazione letteraria è essenziale, proprio in virtù della centralità del suo interesse per il linguaggio, del suo rapporto esclusivo col linguaggio». Insomma, non chiedono interventi giornalistici, inchieste sociali, tirate politiche, denunce, ma insistono sull' allusività del frammento, su una scrittura che decifri i segni dell' attualità senza affrontarli di petto: «attualità non attuale». Tutto ciò dovrebbe confluire in una rubrica chiamata «Cours des choses» (Corso delle cose) e composta da testi brevi elaborati collettivamente. Anche Leonetti non lesina il suo trionfalismo quando scrive a Einaudi: «È in corso di preparazione il più grosso e il più nuovo strumento di cultura democratica collegato all' attività letteraria». Ma sarà la rubrica principale a rappresentare il pomo della discordia. I tedeschi prima nicchiano, dopo, vista la tragica lacerazione vissuta da Berlino, vorrebbero accelerare i tempi, sentono l' esigenza di un luogo di intervento politico. Enzensberger prima sparisce in Norvegia, poi torna sui suoi passi. Uwe Johnson prima si rifugia in Italia, poi ricomincia a battagliare. Ma hanno un' idea diversa della contemporaneità e delle specificità nazionali, e da qui nascono tutti i malintesi che porteranno al naufragio. Nel gennaio ' 63 si tiene un burrascoso incontro a Zurigo. Gli italiani preparano schede di lettura e le fanno circolare. I tedeschi propongono i loro testi. I francesi insistono che il «Cours» venga prodotto dall' «intera comunità degli scrittori». Mascolo vorrebbe una rivista «comunista» anche nell' elaborazione, frutto di «un movimento di pensiero». Una relazione scritta da Leonetti dà conto degli scontri emersi a Zurigo. L' orientamento dei francesi viene ritenuto troppo «astratto»; «sconcertante ma accettabile», secondo Calvino. Il gruppo italiano, che in un primo momento sembrava schierato con Blanchot e compagni, si sposta a fianco dei tedeschi, più legati alla storicità dei contributi. Ma in definitiva, dopo la lettura dei testi, finisce che tutti bocciano tutti. E poi, per dirla con le parole diplomatiche di Leonetti, vengono «sospesi» i lavori personali di Genet, Pasolini, Blanchot, des Forêts, Barthes, Starobinski, Artaud. Una strage. Toccherà a Vittorini fare opera di mediazione per ricucire gli strappi (con qualche tirata d' orecchi ai francesi: «Noi potremmo dire che voi chiamate letteratura un' attività che sarebbe più proprio definire filosofica»). Invece gli strappi si aggraveranno via via, nonostante i colpi d' ala, la frenesia epistolare, gli ultimatum e i pentimenti. Ai conflitti «ideologici» si aggiungeranno le polemiche sul titolo (Pasolini era per EU) e i tira-e-molla degli editori. Si arriva così all' aprile ' 63. Convegno a Parigi, menabò pronti, testi numerosi, tensione alle stelle. Per un equivoco, manca Enzensberger, il quale però, a posteriori, cercherà di chiarire le ragioni di una crisi sempre più irreparabile, anzi catastrofica: «Ho riguardato il materiale (previsto per un possibile primo numero, ndr) e da questo punto di vista (quello del lavoro comune, ndr) non lo ritenevo e continuo a non ritenerlo pubblicabile. Ogni critica parziale... vela la causa principale del fallimento». Il fallimento è dovuto alla «completa incoerenza» del numero, «i singoli pezzi (buoni o cattivi) non formano un insieme riconoscibile». Non si sa molto del convegno parigino, ma dalle lettere. Altro che «scrittura collettiva». Solo la testardaggine di Leonetti e di Vittorini (nonostante la malattia) riuscirà a protrarre le discussioni fino al ' 66. Ne verranno fuori proposte alternative, come quella di approntare edizioni diverse per le singole nazioni con l' intento poi di unificarle. Magra consolazione: nel numero 7 del Menabò confluiranno gli scritti bocciati da Gulliver. Di tutto questo lavorio rimarrà la stanchezza di Barthes e degli altri protagonisti. Ma anche una grandiosa utopia «transnazionale» che dimostra che la famosa sprovincializzazione della cultura italiana era cominciata prima di quanto si creda. Molti dei conflitti emersi allora nella cultura europea tra due diverse idee di letteratura diventeranno vitali per tutto il secolo. Fino a oggi.
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