Riga n. 8
Italia
David Bidussa
Epistolario collettivo sul «tema Italia»
Il manifesto, 15 Giugno 1995

Gli archivisti di domani si domanderanno che cosa sia stato pensato in tempo reale sullo scorcio di questa fine secolo. Per rispondersi avranno molti strumenti indiretti, poco invece di ciò che non necessariamente è comunicato in pubblico, non tanto perché qualcosa doveva essere nascosto, quanto perché domande, perplessità, angosce trovano con difficoltà la forma adatta dell’esternazione. L’ambito all’interno del quale questo lento e faticoso procedere può acquistare una dignità e che per convenzione non è legittimato a rappresentare se non se steso è la lettera privata. Ma questa forma della comunicazione, che tanto ha di affascinante, sta scomparendo. Non è sommerso da fax o cellulari, ma dalla pigrizia, dal fastidio dell’attrito carta/mano, dal senso di «non utilità» del testo manoscritto. Se non fosse che per questo il numero di Riga sull’«Italia» avrebbe già di per sé un merito. Non costruito sulla falsariga di un «diario» pubblico, dove la tecnica di scrittura è solo parvenza di «intimo», e dove anzi questa stessa parvenza serve ad accreditare il gioco di simulazione, il numero è la scoperta di una forma della riflessione - la lettera privata - congiunta a una procedura dell’argomentazione.
Intorno al tema «Italia» - più che al «caso Italia» come un tempo si usava dire - l’idea più banale poteva essere quella di costruire un numero monografico di saggi, infarcito di interviste e note di lettura. Il numero di Riga non è niente di tutto questo, anche se senza questi testi sarebbe stato inconcepibile. Attraverso un fitto scambio epistolare tra i collaboratori della rivista - accomunando pittori, narratori, gente di teatro, saggisti, ciascuno chiamato a render conto di sé, ma anche a riflettere sul senso trasversale della loro specifica forma di produzione e comunicazione - Belpoliti e Grazioli compiono un’operazione che è altamente innovativa nei processi di riflessione oggi operanti in Italia: costruiscono un testo che  allo stesso tempo è la sua elaborazione e che non ha la pretesa di essere compiuto. Ma per questa via ciò che può ritornare in campo è l’idea, nonché il suo «vissuto», che disagio, incertezza, scontentezza e senso d’inadeguatezza, tornano e fondano l’agire della mente, di chi la testa la usa per pensare e non per scuoterla.
Italia non è un testo «a tesi», è la dichiarazione di intenti di un gruppo di individui che si sono provati, rispondendo ciascuno per sé, a esplicitare dubbi e ansie, ma anche gli interessi, il senso del proprio essere «cittadini» in un paese in cui nell’ultimo anno si è detto tutto e il contrario di tutto. In cui non è stata dichiarata un’ipotesi di lavoro culturale, di passione civile, ma solo un interminabile chiacchiericcio recriminatorio su ciò che avrebbe dovuto funzionare e che un diabolico e satanico essere, trasfigurato ad avversario, avrebbe permesso di compiere. Ma proprio perché dichiarazione d’intenti, in qualche modo è anche una promessa a se stessi. Quella di tentare un progetto. Solo gli archivisti di domani saranno in grado di valutare se sarà stata mantenuta, se ciascuno, con i propri mezzi e le proprie capacità avrà riempito il proprio compito o disegno.
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