Riga n. 7
Witold Gombrowicz
Nicole Janigro
Gombrowicz, il senso di essere fuori luogo
Il manifesto, 02 Febbraio 1995

«In Polonia appartenevo alla classe superiore. La Polonia di allora era un paese anacronistico e povero. Le cose andavano male e il fatto di essere nobile e avere dei privilegi aveva un aspetto grottesco e mi stancava. C’era una differenza così grande tra il popolo analfabeta e i signori con il loro lusso e le loro comodità, che urtava molto più che in Francia, per esempio. Per tutto questo, in Polonia io mi sentivo a disagio, stavo male, nella forma. E mi rendevo conto che questa forma che noi abbiamo è ridicola, cattiva, inutile: tutto ciò che si vuole. Quando la forma è scoppiata mi sono sentito molto meglio». Nel novembre del 1968, pochi mesi prima di morire per una malattia polmonare che lo tormentava fin da ragazzo, Witold Gombrowicz conversa a lungo con lo scrittore e critico italiano Piero Sanavio e il critico francese Dominique Roux. Parla della sua opera, esprime giudizi sulle principali correnti artistiche e filosofiche del secolo. Ripercorre un’esistenza anomala, senza famiglia, senza abitudini, lontana dai circoli letterari, fuori luogo. Nato nel 1904 vicino a Varsavia, Gombrowicz lascia l’Europa nel 1939 apparentemente per caso. Infatti, mentre è sul transatlantico che inaugura la rotta Danzica-Buenos Aires, scoppia la guerra. Rimarrà in Argentina per più di vent’anni e ritornerà, di nuovo quasi per caso, nel 1963 a Berlino - e in questo «luogo eventuale» diventerà amico di un’altra persona che ovunque si sentiva «straniera», Ingeborg Bachmann.
Ossessionato dal problema della Forma, maschera sociale ma anche aspetto di costrizione esterna, dal rapporto fra soggetto e oggetto, dal tema della dilagante immaturità - centro del suo primo romanzo Ferdydurke uscito nel 1937 (Feltrinelli, 1991) -, Gombrowicz è uno scrittore fortemente filosofico che fa impazzire i suoi fans, ma che spesso lascia freddo e scoraggiato un occasionale lettore. Il numero di Riga, su questo non c’è dubbio, è curato da un fan, Francesco Cataluccio che da anni ormai glossa e postilla, scopre inediti e li traduce. Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto, (Teoria, ’94) - lezioni dettate per sopravvivere ala malattia - è diventato addirittura una sorta di anti-manuale per chi fa filosofia. Diversi i materiali, proposti in questo quaderno monografico: foto, racconti, lettere, poesie, pagine di diario, saggi critici, testimonianze, disegni di Tadeusz Kantor, immagini ispirate a Enzo Cucchi e Marc Fourquet dalle sue pagine. Le poesie di due grandi poeti polacchi Jaroslaw Iwaskiewicz e di Zbigniew Herbert, un racconto di Pawel Quelle, scrittore della giovane generazione, una poesia di Roger McGough affine al mondo grottesco dell’autore e un racconto dello scrittore-pittore Enzo Fabbrucci fanno da ouverture ai testi di Gombrowicz di cui il racconto dodecafonico sul dolore (e la nota del curatore sul rapporto caldo che lo scrittore intrattenne con la musica), dimostrano quanto acutamente egli avvertisse la disperazione, tutta novecentesca, di dover inseguire una forma letteraria alla quale la semplicità appare ormai storicamente preclusa. Tutti molto originali i commenti critici, seguiti da una ricostruzione delle alterne fortune dello scrittore in Italia. Alla fine se ne sa molto di più, eppure W.G. si conferma figura sfuggente.
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