Riga n. 3
Nanni Valentini
Mario Porro
Nanni Valentini, la mano che impasta l'argilla
Il manifesto, 02 Marzo 1993

Pittore, scultore e ceramista, di origine marchigiana ma poi trapiantatosi nei dintorni di Milano, dove entrò in contatto con Lucio Fontana ed i fratelli Pomodoro, Valentini ha rappresentato un’incarnazione affascinante delle valenze culturali e morali del fare artistico: critico verso ogni forma d’arte ridotta a puro gioco accademico, fedele al proprio lavoro fino ad un’intransigenza etica che non ha temuto il rischio dell’isolamento (quasi ripercorrendo le angosce dell’amato Giacometti), l’artista marchigiano ha anche inseguito un personale ed affascinante contatto col pensiero filosofico e la scrittura poetica. La rivista raccoglie, oltre ai testi di Valentini, saggi di critici d’arte come Fabrizio D’Amico, Flaminio Guardoni, Miklos Varga ed Elio Grazioli, di scrittori come Marco Belpoliti, Marco Ercolani e Roberto Senesi, di psicologi come Giorgio Soro; uno spazio privilegiato hanno gli inserti di poesia di Nanni Cagnone, di Giuliano Scabia e di Giovanni Schiavocampo, e soprattutto gli scritti di filosofi, Massimo Cacciari, Claudio Fontana, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli e Carlo Sini.
«Ho scelto la materia come poetica, e soprattutto identificandola con la terra»; l’affermazione di Valentini è il riconoscimento dello stretto intreccio fra il fare del ceramista e l’operare dell’artista, nel punto di tangenza fra il visibile ed il tattile. L’azione della mano che preleva l’argilla presso l’ansa del fiume per poi affidarla, dopo averla trasformata sull’asse del tornio, al fuoco, è l’incontro con una natura arcaica ed elementare, con la tradizione empedoclea delle trasformazioni reciproche di terra, aria, acqua, fuoco. L’arte del vasaio, come quella del fabbro, abita ancora l’universo del mito: «il mito è dentro la materia che manipola», scrive Belpoliti, e le prime tecnologie conoscono un rapporto sacrale con la Terra, madre e matrice di tutte le trasformazioni. Il ceramista ripete il gesto della creazione, riattualizza dualità originarie, il concavo ed il convesso, il maschile ed il femminile, dà forma al vaso-utero che accoglie il seme. Il tornio rinnova il rito della nascita: come rileva Natoli, qui l’arte imita la natura (l’antica physis, potenza generante) non nel modo della copia e della rappresentazione, ma perché fa esistere al modo stesso della natura. L’arte è qui rivelatrice, rende manifesto il nascosto; è luogo quindi della verità, nel senso greco di aletheia, disvelamento.
La pittura e la scultura di Valentini lavorano così sul limite in cui il nascere naturale ed il dar forma dell’uomo si incontrano. E forse nessuno scultore contemporaneo, rileva Sini, ha frequentato con pari dedizione e timorosa reverenza il tema della soglia, ha cercato di far apparire questo margine fra presenza e assenza, fra attesa e annuncio. Disegni e sculture di Valentini, crateri, spirali, vortici (e poi volti, case, angeli), cercheranno di dar corpo all’istante dell’origine, al moto della nascita, all’invaginarsi della materia che si fa grembo, guscio e caverna, dimora e apertura.
Valentini non poteva non incontrare in questo percorso l’immaginazione materiale di Bachelard (una delle ultime opere dell’artista sarà «La casa di Bachelard» e sue opere, le uniche di un artista italiano, saranno esposte in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita del filosofo francese). La mano che impasta entra nell’intimità stessa delle cose, diventa la guida dell’immaginazione: quasi è rinnovare, seguendo la réverie della mano al lavoro, il desiderio alchemico di svelare il segreto delle cose. Ma in Valentini non predominano i due volti bachelardiani della réverie connessa alla terra, né quello attivo della volontà che avverte nella materia una resistenza ostile, una forza ribelle che va vinta e dominata, secondo una psicologia del «contro»; né il volto intimista che cerca nella materia protezione e rifugio e scorge nell’azione sulle cose solo una modalità di azione sul soggetto. La poetica di Valentini appare più prossima all’estetica di Caillois o del Valèry che fa dialogare Socrate e Fedro a proposito di Eupalino, il mitoc architetto: qui l’arte cerca di accedere all’innocenza ombrosa delle forze fondamentali, quasi volesse contribuire all’opera della natura, nel generare le forme dalla materia. Valentini ha lavorato su questa soglia in cui l’opera della vita, dell’arte e del tempo si con-fondono, in cui il nascosto si rivela, l’invisibile si fa visibile e l’operare umano si dispone in accordo col poiein, col farsi delle cose.
È quest’arte a consentirci di «abitare, poeticamente la terra», la terra «sfiorata dal soffio di Mercurio» e quella che «imprigiona l’ombra delle farfalle», come religiosamente diceva Valentini. Religione pagana, che ceca di cogliere l’anima del luogo (il «pagus» appunto, ci suggerisce l’etimologia), che insegue il respiro, il battito d’ali che sale dal profondo, nella forma dell’angelo, uno dei temi a cui l’artista attendeva poco prima della morte.
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