Riga n. 1
Alberto Giacometti
Stefano Crespi
Lo sguardo dello svizzero
L’indice dei libri del mese, Gennaio 1993

L’opera di Alberto Giacometti sta incontrando una rinnovata attenzione attraverso rivisitazioni, studi, volumi saggistici e biografici. Appare un segno di fertilità l’approccio nelle più varie direzioni interpretative (da variazioni letterarie, a letture che hanno fatto i propri stimoli, cifre psicoanalitiche, ad analisi formali). Eppure permane come un dato di imparagonabilità, e già quasi una distanza di leggenda (si pensi all’esemplarietà di Modiglioni) che sembra sfuggire a una presa globale di metodi e strumenti critici. Giacometti inverte paradossalmente la linea di un percorso cronologico, dal surrealismo a un ritorno almeno apparente alla figurazione. Presenta un’estrema mobilità espressiva, dalla scultura alla pittura, dal disegno alla scrittura, e un’altrettanta immobilità di nuclei poetici. È complessivamente divaricato rispetto allo svolgimento storicistico delle forme e dei linguaggi; ma è difficile pensare ad altri artisti che con più lucida e consequenziale determinazione abbiano ripensato i tempi del tempo, dello spazio, della visione.
Il volume approntato dal primo numero della rivista “Riga” (“Riga”, si legge in premessa è il nome di un luogo dell’infanzia, un “luogo possibile e impossibile” del leggere e dello scrivere) suggerisce, riguardo a Giacometti, un orizzonte critico in movimento, con un gioco ricco di relazioni, e di luci: un’antologia di scritti di Giacometti, testi di carattere testimoniale accanto ad altri di ricognizione più linguistica.
Nell’arco degli scritti, la parte preminente è di fatto riservata alla letteratura critica dei poeti, degli scrittori: pagine per Giacometti molto citate, ma variamente disperse o di difficile reperimento. Si pensi ai due saggi giacomettiani di Sartre che il filosofo aveva raccolto nel volume Che cos’è la letteratura?; alle prose e “riscritture” del poeta Francis Ponge; al testo di Jean Genet; alla testimonianza di Yves Bonnefoy e Jean Starobinski. Siamo in una letteratura critica di reinvenzione, di compenenetrazione, di scrittura che rilancia accostamenti, fulminee ricapitolazioni; o rinvia echi, risonanze; o asseconda figure della lettura flessibili, aperte, mai concluse.
Emblematica la lettura di Sartre. Nella sua intensità letteraria, legata a un clima filosofico, ha finito per gettare un’ambigua luce esistenzialistica su Giacometti (che era con naturalezza poetica “personaggio”; ma era anche molto “svizzero”, di montagna, con un fondo di severità). Non la chiameremmo impropria la lettura di Sartre, come altre simili per Giacometti: sono letture che vanno relativizzate, ricondotte perfino ad autonomie espressive. Hanno a volte il merito di spostare, con una forza interna, problemi interpretativi si è vero, con Roberto Longhi, che la storia della critica appare come “storia di continue evasioni dalle strettoie dottrinali”, dal pensiero astratto e categoriale.
La sottolineatura di Sartre è rivolta alla temporalità, al transeunte, all’orrore per l’infinito e per l’eterno, a una grazia di caducità (“come un’alba, come una tristezza, come un effimero”); alla concezione di una scultura che ha voluto il destino di perire la stessa notte della sua nascita. Era implicitamente lasciato aperto il pericolo di ricondurre Giacometti a una lettura lirica, seducente. È da ribadire invece, nella sua scultura, una carica di deformazione grottesca (la stessa che attraversa le voci più alte della letteratura della Svizzera tedesca). C’è poi quel rimando austero alla primordialità della condizione umana, quasi a una sorta di liturgica inevitabilità, sottratta al tempo.
Lungo una linea di approccio critico, biografico, poetico può essere significativamente richiamato lo scritto antologizzato in volume, Lo straniero di Giacometti, di Bonnefoy che Reinhold Hohl. È Hohl che ha riletto insistentemente Giacometti superando l’esistenzialismo del frammento, dell’esaltazione individuale, per un rapporto con lo spazio, con la “totalité de la vie”. Le Femmes de Venise da I a IX furono eseguite come figure individuali, ma disposte alla Biennale di Venezia del 1956 come “gruppo”, a indicare un’unitaria compenetrazione di significato, un concetto compositivo complesso, relazionale. Un grande progetto d Giacometti non realizzato, ma rivelatore della sua esplorazione nell’idea compositiva della scultura, rimane l’idea del gruppo Monumentale alla Chase Manhattan Plaza di New York. Nella Plaza Giacometti era perfino arrivato a disporre alcuni suoi amici per controllare il gioco dei rapporti e di effetti. Le Donne in piedi, Uomini in cammino, le Teste erano anche studi che avrebbero dovuto partecipare a una più vasta e vivente rappresentazione di un’immagine metaforica o mitica del mondo.
Hohl vede una conferma di tale concezione relazionale nel problema dello sguardo. La scultura è un’energia vivente e non la definizione di un’idea, di un archetipo, di uno spazio: lo scultore guarda il suo modello da una certa distanza, ma è a sua volta guardato dal modello. La scultura, o il dipinto partecipano all’eventicità dello sguardo che non si iscrive in uno spazio, ma crea esso stesso uno spazio: lo scultore guarda il suo modello da una certa distanza, ma è a sua volta guardato dal modello. La scultura, o il dipinto partecipano all’eventicità dello sguardo che non si iscrive in uno spazio, ma crea esso stesso uno spazio di indefinite dimensioni: la dismisura del tempo interiore, il destino di narrazione di ciò che non è accaduto.
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