Riga n. 28
Gianni Celati
Alessandro Beretta
Oralità e avventura in Gianni Celati
Alias, 06 Dicembre 2008

Ogni numero di «Riga», rivista-libro fondata nel 1991 da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli, è una conferma della tensione progettuale che la sottende: aprire spazi nel presente su figure e cose della cultura offrendo materiali per riflettere. In questo caso, nel volume Gianni Celati (Riga 28, Marcos y Marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, pp. 333, € 25,00, con ricchi extra su www.rigabooks.it) si parla di «uno dei maggiori narratori italiani viventi». La definizione nell’introduzione del numero è netta e le pagine successive non fanno che dargli corpo. Celati è un unicum: lontano dall’industria culturale perché, come dichiara in una delle conversazioni raccolte, «la narrativa professionale romanzesca è ormai qualcosa come le patatine chimiche», da tempo si è rivolto al «narrare orale» che è «una vera arte narrativa, molto più leggera, cioè meno forzata, di quella romanzesca». Un’oralità che non è registrazione di parole, ma di modi di raccontare e di svolgere situazioni - e si veda come fa Celati nei recenti Costumi degli italiani (Quodlibet) - che si lega a una condizione antropologica in via d’estinzione. Un’attenzione al racconto orale - chiarita in Il narrare come attività pratica -, recuperata attraverso i filtri di Lévi-Strauss, William Labov e Ludwig Wittgenstein, che oggi è custodita in diversa maniera da scrittori emiliani come Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati - e due loro scritti aprono il volume -, Ugo Cornia, Paolo Nori. C’è, nel libro, il racconto di tutta un’opera nel suo svolgersi: dall’esordio con Comiche (Einaudi, ’72), di cui è presentata una riscrittura inedita dai toni erotici che Calvino, primo scopritore di Celati, aveva fatto omettere, alla dimensione dello scrivere camminando, qui presente negli inediti Diario del Sud e Pochi giorni a Nairobi, alla base del lavoro di Viaggio in Italia (Il Quadrante, ’84) svolto insieme ai fotografi animati da Luigi Ghirri. Un’opera di scoperta del terrirorio che ha poi spinto Celati verso il documentario (e non mancano interventi sul cinema, come sulle slapstick in Il corpo comico nello spazio). L’autore, nato a Sondrio nel 1937, ma girovago da sempre, ha un’autonomia che viene ripercorsa nel lungo inserto di «Scritti su Gianni Celati» dove se spiccano i brani di Italo Calvino e di Giorgio Manganelli, si registra l’entusiasta fedeltà di Giuliano Gramigna. Diverse generazioni di scrittori e critici hanno amato Celati: il volume dà la possibilità a quella più giovane di immergersi nel laboratorio di una scrittura lontana da ogni scuola: ogni narrazione è «un evento - qualcosa che accade come una ventosità che passa da una testa all’altra», si lavora per «pezzetti sparsi» da riadattare in fase finale, il racconto è «il genere narrativo più fragile, sempre sul filo del rasoio» ovvero «una questione di pesi e contrappesi, di vuoti e intensità» e tutto secondo una convinzione: «Io credo di aver sempre seguito la via dell’errore, che è anche la via delle fantasticherie, perché fantasticando di gusto non si può seguire la linea dritta della volontà programmatica». Questa breve dichiarazione ci sembra vicina al motto di Beckett per cui l’importante è: «Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio». Un motto che sembra lontano dall’attuale pragmatismo delle narrative italiane, ma che si rivela invece ricco di avventure. Ripartiamo da Celati.
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