Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Sironi
L'insonnia della superficie

1. Le reti


Di Steinberg vorrei provare a pensare alcune immagini sparse, che sembrano affiorare a fatica entro una trama di linee rette e chissà come venute a deporsi sul bianco di fondo da anonimi fogli di quaderno o di registro. In queste immagini, quadrettature o partiture di righe parallele innervano la superficie della carta: le loro linee precedono e accompagnano il farsi del disegno, come supporti alle sottigliezze della penna. Forse conservano qualcosa delle caselle prestampate che accoglievano ordinatamente file e file di numeri e di lettere, qualcosa anche delle righe tese orizzontali che reggevano il peso delle parole porgendo appoggio al filo nero del discorso, levatrici discrete al dipanarsi della scrittura.
Per disegnare si usava a scuola un foglio bianco, rigorosamente pulito d’ogni macchia, al più riquadrato dalla cornice della squadratura, mentre lo scarabocchio abitava di preferenza i fogli leggeri dei quaderni: veniva meglio se l’attenzione si appiattiva sulla trama omogenea dei quadretti, per ricusare il loro disegno monotono o per seguirlo invece, congiungendone i vertici l’uno con l’altro ed esplorandone così le geometrie possibili. Era, quello, un esercizio da condursi rigorosamente sopra pensiero, smarrendo se stessi tra le righe del foglio e gli sgraffi della penna, finché delle volte le insistenze della mano e dell’occhio davano accesso a uno spazio nebuloso e grigio, nella piattezza della pagina rigata – lo spazio visivo di una miopia obliante, dove il tempo scorreva stanco, senza misure.
Guardando il disegno che introduce Passaporto ritrovo il senso di quell’attività inquieta e dissipatoria – fino all’andare insieme dello sguardo insistito, fino all’aprirsi d’uno spessore esiguo al fondo della pagina, in virtù della fitta tessitura di linee ortogonali. Immagino che il disegnatore si sia fermato a osservarle, a interrogarle a lungo, per predisporre lo spazio del disegno, e che le abbia vedute confondersi in quell’effetto dell’occhio a cui l’immagine s’appiglia con tenacia. Immagine che di fatti sembra presupporre e suscitare il modo d’una visione filtrata, come attraverso le maglie di una rete o larga tela non del tutto uniforme, o come di là di una griglia che è, insieme, troppo fitta e troppo poco modulata in fuga per consegnare allo sguardo l’apparenza di un piano obliquo in prospettiva. Dietro, o piuttosto dentro le maglie della rete, figure di bipedi dal naso lungo si raggruppano lungo la diagonale armonica, senza però suggerire con decisione alcuno spazio ulteriore, né riuscire a produrre la solida illusione della profondità, cui siamo soliti annuire ogni volta di fronte alla raffigurazione di qualcosa. Improbabili colibrì simili a macchie o impronte digitali pascolano per l’estensione del foglio, passeggiano o stanno, s’aggrappano alle sbarre della loro gabbia d’inchiostro: sono forme dalla consistenza indecisa che sembrano addensarsi e prendere qualche corpo soltanto lì, tra i nodi della rete che ambiguamente li cattura e ne rende possibile l’esistenza, attraversandole e percorrendole intimamente. Simili a batuffoli di polvere che s’aggrumano negli angoli nascosti delle stanze, quelle figure presentano un certo grado di fumosità e leggerezza, una certa indecidibile trasparenza – come indecidibile è la trasparenza della rete, incerta tra la consistenza metallica delle sbarre e la velatura che si spande ampia, che tutto comprende, per produrre soltanto un ronzio indistinto, insistente, importuno. 
Il disegno di Steinberg giace qui, sulla pagina, e la pagina ne contiene intero il segreto, mentre racconta l’innesto di quelle forme fumose con la rigatura di uno spazio assolutamente piano, ma niente affatto quieto; mentre ci consegna un’immagine sempre prigioniera d’una sorta di vibrazione, sempre presa dentro la tensione irrisolta che senza posa accosta e divarica profondità e superficie – che è il vero motivo di questa figurazione.


Il disegno che segue è una variazione sul tema: ancora un reticolo fine riempie la superficie del foglio, tessendo una ramata sottile su cui s’inerpicano figure di gatti dal naso umano e dalle unghie riccioline, come le dita di certi sgraffignatori aggressivi e violenti che popolano di Steinberg le piazze d’Italia. Qui come altrove l’immagine sorge da un reticolo già dato, e poco importa se esistente o ricostruito linea su linea, perché ora con estrema evidenza la tessitura che riempie lo spazio non ha altra natura che quella del segno leggero della penna, del segno che viene dopo, ma senza distinzione di pregnanza o di spessore, e che si pone sullo stesso piano. E il piano in questione è, neanche a dirsi, quello stesso del foglio, o della superficie entro cui tutto è compreso: dove non fa differenza tra prigione e prigioniero, dove non c’è davanti né dietro, né primo piano né secondo, perché tutto va insieme: tutto possiede lo stesso esiguo spessore e tutto sfuoca, alla fine, e si confonde in una vibratilità inquieta da cui si stacca soltanto un paio d’occhi troppo umani – dunque interrogativi e tristi – di uno dei gatti da basso, allineati in fila in calce al disegno.  


Poi una coppia. Un uomo e una donna si affacciano dalla loro stanza, ci spiano da dietro le veneziane abbassate. O siamo noi piuttosto a spiarne la presenza, indugiando tra gli spazi più ampi che scandiscono in verticale la progressione del pentagramma. Ancora una volta Steinberg si misura con una disposizione già data di segni che rigano la carta, limitandosi ad aggiungere allo spartito vuoto quel tanto che serve per cambiarne il senso, al modo di chi accetti la sfida di certi passatempi visivi che s’incontrano ancora nelle riviste d’enigmistica. Qui, come in altre immagini lavorate e tessute nell’ordito della carta da musica, il disegnatore annoda il già scritto e lo scrivibile, in un’integrazione che produce l’immagine di una trasparenza credibile – proprio come fa o pretende di fare ogni scrittura che si confronti col già scritto, che nel già scritto s’inoltri o si avventuri.
Il disegno di Steinberg allude a una trasparenza che non c’è, mimando, anzi assumendo in sé la disposizione ossessiva del guardare curioso tra le righe, del guardare oltre o attraverso. Ma così facendo espone pure il trucco, l’artificio semplice su cui riposa: insinua il dubbio che la vera questione sia invece un’altra, e cioè quella di guardare precisamente quelle righe. Quelle righe, e quelle altre che con esse dialogano senza posa. Questione di guardare il disegno, e il piano stesso su cui giace.


Un grattacielo squadrato, enorme, irto di antenne sovrasta i resti della città vecchia, come le auto, i passanti, i segnali, lo spazio rado dell’odierna metropoli. Il grattacielo è un rettangolo di carta protocollo, intorno al quale è allestita una cornice sommaria fatta di tratti più densi, più marcati: al centro, inintaccabile, quella griglia sottile espone se stessa. Il ritaglio di carta non si offre già più come frammento del mondo di fuori, rinuncia a dire la sua consistenza, il suo spessore, per dichiarare soltanto la trama astratta delle ortogonali, le celle innumeri, l’opacità muta del tratto e del fondo. Sulla piattezza del foglio ogni cosa è ricondotta alla scura natura della linea, oppure è tratta al silenzio del fondo: ogni cosa rivela la superficie su cui giace come spazio assoluto, dove nessuna trasparenza è possibile. Il foglio è questo spazio dell’immaginazione, inquieto, insonne: l’unico spazio di cui il disegno ha bisogno per esistere.




2. Letture


Di Steinberg vorrei provare a guardare le immagini un po’ più a lungo: anche le immagini minime, gracilissime, che sembrano chiedere un’attenzione di pochi istanti e non ammettere indugio, perché si rapprendono in scarsi segni che sono già inneschi per il pensiero, quantità di polvere pirica che prendono subito fuoco al contatto con un’attenzione appena un po’ desta. Farsi complici delle immagini di Steinberg non è difficile: difficile è sottrarsi all’imperativo di tradurle in parole, di appioppare loro una didascalia e disporre spazi di discorso in cui esplorarne gli esiti narrativi, o la portata critica sociologica eccetera. Difficile è dar credito alle immagini, al loro segno elementare, spesso ingenuo o impreciso, e tentarne così una lettura più letterale – la lettura più letterale possibile: quella che trae al fondo, che va a giacere sul supporto muto. Non proprio una lettura della lettera, o del segno: quella che indaghi del segno le asperità minute, la decisa o indecisa qualità, il tratto che si svolge e che via via delimita, segue, circoscrive, che taglia lo sfondo e induce a intendere porzioni di bianco come semplici riconoscibili figure. Non proprio questo, o non solo: ma una lettura che di questa ha qualcosa, perché comprende la persistenza sulla superficie dove ha luogo l’itinerario della penna – lettura che al limite ne ripercorra il percorso, come in quelle animazioni che accompagnano un’intervista televisiva al disegnatore e che rendono meraviglioso il fluire del segno sul bianco di fondo.
Ma una lettura che approssimi il gesto di giacere sul foglio, che sappia farsi ascolto della superficie, che tenda al limite del suo biancore come seguendo la curva di un asintoto, perché non potrà mai esserlo, quel biancore, né toccarlo: questa sì che bisognerebbe tentare. Una lettura che può prodursi soltanto differendo indefinitamente il tocco e che rinunci alla presa, sapendo di potersi definire al più come sfioramento dell’occhio sulla pelle del foglio, del mondo, delle cose. Una lettura che insisterebbe sul fondo dell’immagine, sul piano muto dove depositano i segni, senza più accennare movenze di fuga verso la profondità del discorso psicologico o narrativo, ma che permanga alla superficie ancora qualche istante, che indugi un po’ più a lungo di quanto i segni stessi sembrino reclamare.
Sarebbe forse una lettura elementare, superficiale il più possibile, perché proprio la superficie è qui in gioco – qui, nei disegni di Steinberg –: il suo silenzioso distendersi in disegno, il suo lasciarsi percorrere, il suo essere e farsi spazio rigato di linee – che sono la vera sostanza del mondo di Steinberg: un mondo fatto di carta e d’inchiostro. Sarebbe già qualcosa, se una lettura simile potesse schiudercene di nuovo la visione; potesse almeno rivelarci quella carta e quell’inchiostro come parte del mondo, non più, non solo come mondi a parte.




3. La pelle delle cose


Di Steinberg vorrei provare a pensare l’immagine di una donna seduta con le gambe raccolte sulla sedia, la mano destra sul piano d’un tavolino fiorito che sostiene a sua volta un vasetto di fiori. È uno dei casi in cui il disegnatore ricorre alla fotografia per allestire l’immagine, ma qui la foto non è il supporto iconico apertamente alluso, di cui il disegno intende imitare lo schema ripetitivo e stereotipo – il ricordo dello sposalizio, il ritratto del bebè, il gruppo di famiglia o l’individualista a caccia di esotiche avventure – come pure capita di vedere sfogliando l’album dell’autore. Ma a ben guardare, la foto non è nemmeno assunta come supporto materiale per gli interventi della penna, come succede invece per alcune immagini di comignoli o tubature dissepolte, che pochi tratti bastano a trasformare in scenari di città possibili, deserte e caotiche come quelle che s’aprono là fuori. 
No, in questa immagine il supporto del disegno è offerto dalle cose: è proprio il loro accostamento, la loro disposizione sulla scena di un teatrino domestico immaginario che pare accoglierne o prefigurarne le linee. Questa volta il disegno è stato fatto per essere fotografato ed è stato tracciato direttamente sulla pelle delle cose, perché si affidasse a quel dialogo sottile che unisce la superficie sensibile degli oggetti, esposti all’azione del pennello e della mano, e quella della pellicola sensibile alla luce. L’immagine che vediamo esiste soltanto per la fotografia, solo in virtù della fotografia che è il luogo ultimo di una messa in scena: perché offre il suo spazio cartaceo quale deposito, testimonianza, traccia di una performance nascosta, durante la quale l’autore deve aver eseguito quei segni spessi e neri sul chiaro del tessuto e del ripiano, non trascurando di cancellare col bianco un pezzetto della cornice che orla il tavolino. 
Così diversa dall’illustrazione pubblicitaria che intende mostrare un arredo all’ultima moda, oppure esibire la trovata di un designer-artista che personalmente decora serie di sedie con figure di donna, l’immagine di Steinberg resta un racconto muto, deposto e inscritto nelle cose, e consegnato infine alla lastra fotografica in bianco e nero, dove i contrasti accentuati annullano la consistenza degli oggetti, che si distinguono senza mezzi toni per spesse linee nere sopra un grigio diffuso e sporco, e che ricordano certi disegni in cui l’autore fa uso di grossi segni a pennello e velature d’inchiostro.
In questa fotografia le cose sono ridotte a segni scuri, non tanto diverse dalla figura femminile tracciata sul velluto – come latenza che, quasi fotograficamente, acquista nuova visibilità; come indice di un’assenza o, invece, affioramento d’una presenza eventuale e possibile. Ma l’osservazione più elementare è forse questa: che la figura sia fatta della stessa sostanza delle cose, irreparabilmente presa entro l’implicazione che ad esse ci unisce, o che lega il segno già dato e quello da tracciare – qui, come nei disegni che abbiamo già scorso: anche qui, dove la superficie del foglio cede il posto a quella delle cose, e a quel supporto d’immagine che la fotografia dispone.
Niente di confortante o confortevole, in essa: questa immagine concede pochissimo alla piacevolezza, per via dell’inquadratura imposta dal punto di vista obbligato del disegno, che come nell’arte dell’anamorfosi esige uno sguardo monocolo e fisso; o per colpa della scarsa resa di materiali e volumi, che ne fa una pessima immagine da catalogo, e l’avvicina invece alle foto di artisti concettuali, o a vecchie stampe documentarie e oggettive, a trascorse immagini di cronaca o a rilievi estemporanei di oggetti raccolti sul luogo di un delitto. Immagini tutte che non ammettono contemplazione, ma avviano il meccanismo d’una lettura indiziaria che le scruta per carpirne il segreto, le fruga fino a scoprirvi la manchevolezza, il dettaglio rivelatore fuori posto. 
Nel nostro caso, gli indizi dicono che quelle tracce d’inchiostro imbrattano davvero la superficie delle cose, come succede in altre fotografie di Steinberg più nitide e serene, forse più facili da decifrare. Ma l’esito di quel gioco arguto dell’occhio e dell’intelletto è anche un altro, quando il gioco scopre se stesso nel proprio gesto insistito, quando s’accorge della propria disposizione tesa e contratta a cogliere la preda. O quando alla fine mette a nudo l’insospettata complicità che ci lega tenacemente all’immagine e al suo autore.


Alla particolare complicità che è data dall’essere contemporanei – dal condividere cioè un «comune bagaglio culturale storico poetico» – Steinberg accordava una funzione chiave perché qualcosa passi tra l’autore e chi ne osserva il disegno: è un ingrediente fondamentale perché funzionino l’ironia, l’arguzia, la sottigliezza tagliente della figurazione. Però essere complici implica anche qualcosa di più profondo e di più elementare: qualcosa che viene prima dell’intenzione critica o censoria del disegnatore, o che sotto di essa traspare comunque con forza. 
Sul volto di quella donna seduta, nella sua posa, prima che perplessità sconforto afflizione sembra offrirsi l’immagine dei momenti vuoti: il senso di un abbandono inquieto e muto, il gesto del vivere, che in Steinberg non apre alla stupefazione, ma sempre rivela una complicità sottile, sempre conduce ambiguamente a quello strato elementare in cui davvero siamo complici, e cioè presi, allacciati insieme gli uni con gli altri, nella comune appartenenza alle trame dei linguaggi e degli usi, dentro l’intesa segreta – perché inavvertita, non voluta – grazie alla quale quotidianamente ci intendiamo. Ma questo ha a che fare con la rivelazione di un fondo comune da cui continuamente traiamo, quello di dove proviene e a cui ritorna ogni nostro gesto, parola, immagine. La minuziosa rete dei linguaggi, dei gesti, delle abitudini, delle convenzioni; il fondo dell’ovvio; il già visto e il già sentito dire: tutto ciò ne è parte – tutto ciò che del mondo deposita sul foglio e che incessantemente passa ancora, dal foglio al mondo, per i sottili fili dell’uso, la cui tessitura finissima precede e segue i segni possibili.
Di disegno in disegno Steinberg non fa che riscrivere questa complicità radicale che ci lega: la critica, l’ironizza nei gesti caricati degli uomini o figurando i loro discorsi, eppure non smette di farne uso. Non ne esce, perché non può esimersi dall’attingere a quella trama infinita che ci attraversa e ci circonda, come una rete di cui siamo prigionieri, e che però è l’unico appiglio che abbiamo per attraversare il vuoto del foglio e del mondo. 
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