Riga n.
Alberto Arbasino
Saul Steinberg
Intervista televisiva con Sergio Zavoli

S.Z.: Quest'uomo di cinquantatre anni è Saul Steinberg, il più celebre disegnatore umoristico del mondo; è nato a Bucarest, si è laureato in architettura a Milano, ha soggiornato in Italia dal 1933 al 1940; vive a New York. Dal 1936 al 1939 disegnò per il «Bertoldo», poi le persecuzioni razziali lo indussero a partire per l’America. Il suo mondo figurativo ha ispirato vari accostamenti e ha suggerito altrettante origini: gongorismo, barocchismo, onirismo, surrealismo. Molti ismi, Steinberg li rifiuta tutti; Picasso, Klee, Joyce, Kafka, troppi geni: Steinberg rivendica soltanto il suo.
Questo incontro, realizzato in uno spazio e in un tempo assai angusti, è il frutto di un singolare compromesso con il suo paradossale protagonista: non più di venti domande, nessun accordo preliminare, no ai rifacimenti, rifiuto di ogni teatralità. La massima concentrazione logica, l’essenza concettuale e umana di quell’irragionevole
ma stimolante compromesso.

S.S.: Dunque, ecco i funghi di cemento che spuntano dall’asfalto dei nostri tetti, belli no? Sono i mugiki, i servi della casa, i cassoni dell’acqua, insomma. Questo strano paesaggio è un po’ il simbolo della città, una città capovolta, che ha messo i cortili in aria, che vive a rovescio, insomma. Tutto intorno ci sono i labirinti verticali, in Europa si chiamano case, e sono verticali per via degli ascensori che altrimenti non servirebbero. E dentro, dentro questi buchi, queste case, ci sono migliaia di minotauri che stanno a guardare la televisione.

S.Z.: Perché ha una visione così disumana della città?

S.S.: Perché i minotauri sono coloro che si sono rassegnati a vivere in una città, una specie di città, perfettamente organizzata come un labirinto; è come se fosse uno schedario: sapendo il numero della strada dove uno abita si può capire subito la sua condizione sociale e cioè quanto guadagna, che specie di moglie ha, eccetera, sì. Quello che li rende mostruosi è il fatto che sono professionisti di questo labirintismo, che non cercano per nulla di salvarsene, ne hanno fatto un mestiere, la professione di vivere lungo la canna degli ascensori, tutta la vita.

S.Z.: Perché ha dichiarato che l’America è il suo paese?

S.S.: Proprio perché qui non si fanno tante storie... insomma, non ci si illude in America che la vita sia una cosa romantica, una cosa che si possa recitare a soggetto. Qui la vita è veramente quella cosa penosa che dobbiamo sopportare. Questo è un paese stoico, mentre altrove questi labirinti, queste città, si danno ancora l’illusione di essere una corte dell’imperatore, una favola. Questo, insomma, è un paese dove si vive senza illusioni. Nessuno qui, per esempio, cerca la solitudine; un uomo solo che bisogno ha di nascondersi, a chi si nasconde?

S.Z.: Signor Steinberg, lei vive abitualmente in questa casa?

S.S.: Sì, qui lavoro, d’inverno però. D’estate preferisco viaggiare; ma poi ritorno in questa piccola casa dove però c’è tutto quello che serve per vivere. Questo è il laboratorio per fare da mangiare e questo sarebbe il tavolo dove mangio e qui alle pareti ci sono dei quadri, una specie di collezione fatta con scambi tra amici. Con l’eccezione di questo falso Mondrian, che ho fatto io, come una specie di omaggio a Mondrian: ho cercato di impersonarlo, di vedere come potrei sentirmi se io fossi Mondrian. Lo tengo come una specie di... Per esempio, ecco: chi mangia un pollo con grande piacere fa un omaggio a questo pollo; così io ho provato a impossessarmi di Mondrian, ho provato a digerirlo. Poi c’è un’altra cosa secondo me, e cioè l’illusione che non sia completamente falso perché l’ho dipinto io.
In questo palazzo e in quell’altro di fronte abitano credo dodicimila persone con circa trentaduemila cani che vivono insieme con loro; e ho voluto abitare almeno un po’ in questo posto perché vivendo qui rimango invisibile.

S.Z.: È più portato a cogliere la deformazione, il vizio, la malformazione individuale, privata, o dell’atteggiamento di massa?

S.S.: Io non mi sono mai preoccupato di un individuo solo, di una caratteristica individuale, ma di qualcosa che rappresentasse questo individuo come elemento, come simbolo di un vizio politico, di un vizio sociale, insomma. Per esempio disegnando una donna, facendo il disegno di una donna, io non ho mai fatto il ritratto di una donna specifica ma l’ho descritta nei vestiti che questa donna si metteva addosso, nella maniera di agire, nel suo modo di essere visibile.
Prendiamo le maschere che le donne si mettono, specialmente in America; sono maschere di cui le donne si servono per difendersi, per rendersi invisibili, cioè per presentarsi alla società in modo che svia, che altera completamente la loro autentica, la loro vera personalità. E la maschera più comune che si mettono è quella dell’allegria e della buona salute, perché il peccato più grosso che si possa compiere qui in America è di dare segni di infelicità e di malattia.
Allora si ricorre al travestimento; è una cosa indecente che si fa, antisociale quella di lamentarsi, quella di dire che qualcosa va male. Se vuoi farti ascoltare, devi dire che stai benissimo. E c’è anche la maschera del corpo; una donna vecchia, per esempio, non si veste mai da donna vecchia; quando arriva il momento in cui la morte incomincia ad apparire, si veste sempre più allegramente. È un modo decente di eliminare la pietà degli altri e di fare di questa tragedia, che è la morte, uno scherzo.
Dunque si vestono da clown, si dipingono il naso di rosso, i capelli di verde o di azzurro, e queste sono le cose che io disegno, le cose che mi interessano.

S.Z.: E il senso di quei collage qual è?

S.S.: Ecco, questi sono finti dischi da grammofono, sono fatti di cartone. Sono un po’ come diari di ogni giorno che io incido su un disco: scrivo il mio nome e il soggetto che mi sono inventato. Io sono contro il parlare e lo scrivere e penso che basterebbe spedire e ricevere delle buste: la vista di una busta di posta aerea, dei timbri, dei francobolli, crea un riflesso condizionato, ci dà insomma la sensazione che dava il campanello ai cani di Pavlov, cioè ci dà un appetito. La vista di una busta aerea ci avverte che stiamo ricevendo notizie dall’estero
e queste sono cose che amiamo. S.Z.: Lei disse che la guerra, nella sua orrenda esteriorità, la indusse a vivere per contrasto appunto nel recinto più intimo, più chiuso delle sue idee.

S.S.: Durante la guerra io mi trovai nella condizione perfetta per diventare invisibile. L’uniforme mi to-glieva ogni individualità, io potevo vedere, osservare ogni cosa, nessuno riusciva a vedere me, ma io potevo vedere tutti.

S.Z.: E questa mimetizzazione, scusi, diventava per lei una specie di alibi: di quale natura?

S.S.: La condizione migliore per osservare è quella di essere camuffato; è la ragione per cui abito in una casa così, che non ha nessuna storia. Sono una mano che disegna e basta. Queste sono diverse vite: A è la nascita e B è la fine. La vita ideale sarebbe procedere col tiralinee, una linea perfetta da A a B; ma è evidente che ciò non può accadere. Prendiamo questa linea: può succedere, è verosimile, ma sarebbe la biografia di un infante che muore subito dopo la nascita, qualcosa che non è proprio una vita. Quest’altra è la vita, come posso dire, di una persona della religione, di una persona burocratica.
Questo è un labirinto, la vita di una persona tormentata e confusa. Questa è di un avaro, di una persona misera. Ma quello che volevo spiegare ��" spiegare è una parola detestabile che io uso malvolentieri, ciascuno perciò potrà dare la propria interpretazione ��" è l’esistenza dell’artista, l’esistenza poetica che comincia sì da A, ma comincia a rovescio, andando a ritroso e annusando le altre vite entra dentro tutte le vite per la curiosità di capirle, di impersonarle; qui entra e non solo annusa questa vita ma la interpreta anche e percorrendola ne fa una mimica, una imitazione: esce, passa, torna a guardare per un po’ quest’altra vita, poi va avanti; visita questa che forse è una vita isterica, probabilmente di una persona pazza, fa un piccolo labirinto elegante, esce da questa vita e procede con una visione perfetta della sua fine che è alla grande B; torna indietro, fa un altro ghirigoro, che è come un rimpianto, per poi rassegnarsi ad andare avanti in modo forte fino alla fine. Allora io ne deduco che la lunga giovinezza dell’artista è un po’ quella di passare attraverso le vite altrui, di farsi una vita che contiene l’originalità di aver vissuto e superato quelle degli altri. E dunque si fa così una vita ancora più personale, certamente più ricca. Diamo un’occhiata a quest’altro disegno: è una vita tormentata, un labirinto, una linea continua che parte da A e gira, gira, gira, fino a B. Questo per caso è venuto così: è un minotauro, vede?, un mostro. Nell’intrico, nel groviglio si possono vedere gli occhi: un minotauro nel labirinto. Se lei lo crede interessante io vorrei enunciarle la teoria del naso. Vediamo: ci vuole molto tempo per spiegarla, costerà molto denaro alla televisione!
Questo è un po’ il modulo di una maschera basata sul naso. Io credo che il naso sia la parte del nostro corpo più primitiva, la più originale e privata; gli occhi e la bocca sono già, come dire, elementi politici della faccia, mentre il naso è rimasto un po’ l’antenato della faccia, è la parte meno evoluta.
Allora nella maschera io uso il naso come elemento veridico. Qui io faccio me stesso primitivo, cioè occhiali, naso, occhi e bocca.
Ecco, questa è una piccola maschera dove è il naso il protagonista, mi assomiglia, è il simbolo stesso ma più esemplare, più significativo del mio viso. Infatti si può costruire il proprio viso ��" io l’ho fatto spesso ma è un’operazione complicata ��" disegnando sul naso stesso gli occhi, il naso e la bocca, e diventa un ritratto essenziale di me stesso. E non solo di me stesso, ma di tutti; tutti abbiamo un naso come elemento che ci identifica; è il naso che ci rende complici di noi stessi. La misura dell’uomo è il suo naso, è un po’ il nostro distintivo. E poi c’è un altro sistema di rappresentare una faccia, con una fotografia. Quest’altra è una fotografia mia da cui ho ritagliato la parte essenziale, cioè gli occhi con occhiali, il naso e la bocca; ho eliminato il resto perché è la parte inutile, soltanto anatomica, provvisoria. È la cornice della faccia, che può essere una cornice qualsiasi, mentre questa è la vera faccia. Questa è la parte storica, vera, di una faccia; io l’ho ridotta a una specie di essenza totemica di me stesso, tralasciando il resto della faccia che è tutta roba fisiologica, biologica, anatomica, la parte clinica insomma.

S.Z.: Il senso filosofico di questo esperimento qual è?

S.S.: È una stenografia della faccia. È il risultato, l’identificazione della faccia, il suo totem.

S.Z.: Vediamo quell’altra maschera.

S.S.: Questa è la maschera che mi protegge dagli altri; infatti con questa maschera io potrei parlare nella maniera più libera e divento in un modo completamente diverso. Se torniamo indietro e rifacciamo tutto da capo con la maschera: vuole scommettere che dirò il contrario di quello che ho detto?

S.Z.: È l’ultimo paradosso di un moralista, la maschera non come fuga ma come emblema di
ipocrisia e forse strumento di salvezza. Nella società della solitudine, Steinberg l’ha detto all’inizio, a chi nascondersi? Forse agli unici testimoni della nostra ambiguità, cioè a noi stessi.

Dal programma televisivo Incontro con Saul Steinberg, Radiotelevisione italiana, 1967. Trascrizione di Roberta Sironi.
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