Riga n. 15
John Cage
Lucia Prandi
Conversazione con Joseph Kosuth

Testo pretesto

John Cage. Sorridente e tranquillo come un maestro Zen, in una foto si affaccia a un finestrino del treno e guarda fuori. Ironizza sul suo nome, riassumendo se stesso nella frase «Get out of whatever cage you’re in», che è anche la dichiarazione d’intenti della sua opera.

Joseph Kosuth. Esce dalla «cage» con un salto concettuale, perché è sparita ogni traccia di «cage» referenziale.
Tautologia. Tassonomia. Quadratura del cerchio piuttosto che quadrato magico. Un sistema che affascina e non teme cortocircuiti. Transiti e spostamenti. Ironia e glacialità alla Buster Keaton.
A incontrarlo di persona ci si accorge che, in realtà, Kosuth sorride gentilmente.

Ma sia per Cage che per Kosuth l’arte è un gioco serissimo. Mettere in discussione la natura dell’arte. Ribaltare i termini. Sovvertirne l’ordine con rivoluzioni artistiche.

«Un modo di scrivere musica: studiare Duchamp», ha detto Cage.
E sicuramente Duchamp è suo maestro più di Schonberg.
Duchamp imbottiglia aria. Cage imbottiglia suoni e rumori. Poi fa sparire la bottiglia e disperde Silenzio.
Acqua in cui suonano fischietti. Empty Words. Conferenza su niente. Silenzio. Roatoratorio. An Irish circus on Finnegans Wake. Fogli trasparenti e mappe stellari. Griglie 64 per 64. Composizioni indeterminate. 4’3’’. Variations.

Di rimbalzo, Cage è «studiato» dalle diverse avanguardie. Tra queste, l’Arte Concettuale.
I ponti con lo strutturalismo formalistico sono definitivamente interrotti.
Slittamenti non coincidenti.
Come Kosuth sottolinea, gli artisti guardavano a Cage per quell’approach all’arte come ricerca del farsi del significato, che sentivano di condividere all’interno di una nuova definizione/funzione di arte e di artista.
 
A prima vista, il suo lavoro e quello di Cage potrebbero apparire molto diversi, a causa del carattere aleatorio della musica di Cage.
Che cosa ne pensa?
A me pare che entrambi consideriate la vostra attività sia teoretica che concettuale e che la pratica sia parte della teoria stessa, anche se Cage insiste più sulla materia, sull’oggetto dell’arte come esperienza e sulla sua qualità fisica.
Non credo davvero che il suono-oggetto sia il punto importante. Certo, è importante come la forma per creare il testo.
Ritengo che sia interessante quello che Cage ha detto a proposito della sua composizione silenziosa, 4’3’’, che considerava la sua migliore e che gli piaceva pensare non fosse mai stata interrotta, influenzando la musica che egli aveva composto dopo quella. Il silenzio sembra far sparire l’aspetto fisico del suono (bianco) o, forse, solo il suono composto dal musicista, in modo che arte e realtà siano la stessa cosa. Noi (gli ascoltatori) siamo dentro e ascoltiamo fuori.
Cage ha detto di aver deciso di «scrivere» 4’33’’ dopo aver visto i dipinti di Tobey e i «white paintings» di Rauschenberg. Anche Mallarmé aveva contribuito all’idea. Così il silenzio non è assenza di suoni, ma uno spazio dove può succedere qualunque cosa (possibilità). In 0’00’’ Cage voleva annullare (o cancellare) l’idea del tempo. Comunque, questo ha a che fare con il linguaggio.
Mi vengono in mente i suoi lavori Zero & Not e l’idea di omissioni e, in generale, l’idea di ribaltare qualcosa — il suono, un dipinto e il comune punto di vista dell’arte tradizionale con le sue regole — per creare connessioni e lasciar funzionare il significato.

Ci sono, naturalmente, punti che si incontrano ed altri no. Se sta cercando di tracciare una mappa, cercherà di avere una visione globale delle corrispondenze. Quello che ho imparato da Cage, e l’ho imparato mentre lo stavo imparando anche da altri — ha coinciso — è stato un approccio all’arte come ricerca per trovare il farsi del significato. Per riuscirci uno sviluppa o prende a prestito, spesso da un contesto non collegato, una varietà di strategie. Se il significato è ciò che interessa, allora la cancellatura, l’omissione, l’eliminazione e lo sbarramento di un precedente significato, di dati o presunti significati, diventa una parte necessaria di un processo nel quale il significato stesso può essere reso visibile. Ma «l’apparenza», come lei mi chiede, può indicare il contrario di quello che si pensa. Se un artista è coerente, e lo si può essere a qualsiasi livello di percezione, a loro (i critici di professione) piace dire superficialmente che «ha uno stile», il che, senza dubbio, non coglie l’essenziale. Quindi io e Cage sembriamo avere uno «stile» diverso, nel senso della domanda che lei fa. Forse siamo troppo vicini per avere lo stesso «stile».
Cage ha posto le domande più importanti sul farsi del significato nella musica, le ha poste come fa un artista e lo ha fatto così bene, che tutti noi non abbiamo potuto ignorare il fatto che si stava parlando anche della nostra pratica artistica. Il visivo nelle arti visive è meno importante dell’arte nelle arti visive. Queste sono parte delle convenzioni che ci legano. Infine, la parola «vedere» è anche usata per significare «capire». In questo modo anche Cage è stato un artista visivo.

Voglio correre il rischio di proporle un paradosso: c’è qualcosa nella sua arte che possa essere considerato aleatorio, casuale?
Può essere quell’«any» glass leaning on «any» wall («qualsiasi» vetro inclinato su «qualsiasi» muro) o la collocazione di alcuni suoi lavori. L’arte entra nella cultura, nella vita, compresi luoghi diversi e suoni diversi...

Sì. Molti degli elementi specifici del mio lavoro sono arbitrari, anche se il mio metodo di scelta non è aleatorio nel senso di Cage. Se si parte dall’importante comprensione che, all’interno del mio lavoro, le mie scelte non sono formali, ma sono funzionali all’idea in gioco, allora si arriva ad un sistema di scelte che è molto più linguistico: gli elementi all’interno del mio lavoro creano un significato sistemico, ma, individualmente, sono arbitrari, non diversamente dalle singole parole all’interno del linguaggio. Il suo è un buon esempio di ciò che sto descrivendo. Se si pensa che l’arte consista di forme e colori, non si può dire «qualsiasi» in questo modo. In questo senso io sono dal lato opposto della barricata del XX secolo con Cage (e pochi altri) rispetto a Matisse, Picasso (e la maggior parte degli altri).

Quale parte del suo lavoro considera legato all’idea di musica, in particolare alla musica di Cage? Inoltre, quali dei suoi lavori considera più «eloquenti» in questa relazione?
 Il suo uso della fotografia come readymade... l’idea di traduzione collegata al linguaggio... la relazione con Duchamp...

Per essere un artista Cage ha dovuto aggirare la dance music per creare un atteggiamento, atteggiamento che divenne una sorta di dance music per gli artisti. Ho il sospetto che, per Cage, la musica fosse un luogo di lavoro piuttosto che qualcosa di utile all’esecuzione. Per me la sua domanda gira intorno alla questione; penso si inizi con un processo più ampio, che viene poi esemplificato nelle singole opere. Una parte importante del lavoro di ogni artista è l’intervallo tra le opere, più intervalli si afferrano e più il lavoro reale è visibile. Le singole opere troppo facilmente diventano un luogo di interpretazione, uno specchio per le richieste di significato di altri. Va bene, naturalmente, sono felice di rendermi utile, ma questo non dà una risposta a domande simili alla sua. Capisce?

Certo. Suppongo che Samuel Beckett intendesse qualcosa del genere quando ha fatto dire ad un suo personaggio: «l’esperienza del mio lettore sarà tra una frase e l’altra, nel silenzio comunicato dagli intervalli». Questo mi fa venire in mente il valore delle interruzioni e del silenzio per Cage.

Penso che l’ironia ed il linguaggio siano un punto che lei ha in comune con Cage.
Una volta lei ha detto che il suo lavoro è teorico come la scrittura.
E anche Beckett, scrittore che ha lavorato molto sul significato e sull’uso del linguaggio, usava l’ironia. In Krapp’s last tape c’è un frammento della musica di Cage.
Come nell’opera teatrale di Beckett il nastro rappresenta la memoria di Krapp e la coscienza di sé, i lavori concettuali sono la memoria storica della società attraverso la cultura.
Anche l’ironia è un modo per mantenere una rottura con una cultura/società convenzionale e rendere il pubblico più consapevole, illuminato (la funzione dell’anarchia).

Sì. Anche Beckett è da questa parte della barricata. Così il suo maestro Joyce. Così l’ironia.

Le pare che il metodo della casualità di Cage con l’uso dell’I Ching possa essere considerato come un elemento neutro quanto il suo uso del carattere tipografico come un readymade? E come una ripetizione di un concetto per costruire il gioco del linguaggio dell’arte?

Penso che l’I Ching sia stata una metafora funzionale del linguaggio, anche se solo linguaggio al momento della traduzione. Un meccanismo con profonde radici culturali che però non appartenevano a Cage e che egli usava per creare e cancellare significati all’interno della cultura (occidentale). Era un sistema per produrre risposte che contraddiceva la cultura nella quale queste domande potevano essere formula-te e nella quale si intendeva che la sua attività avesse significato. L’I Ching rappresenta System/Nothing (il Sistema/Nulla). Un atto individuale di usare l’I Ching stesso nelle forme occidentali come Nothing in una ricerca del significato. Hai Zero e hai Not. Non è un caso che Cage abbia scelto un readymade che era un verbo piuttosto che un nome. In effetti, Cage era un verbo in un periodo in cui la maggioranza vedeva l’arte come un nome.

Ciò, naturalmente, significa anche uno slittamento di quella che si presumeva la funzione dell’artista.
Cage aspirava a raggiungere una sorta di obiettività nel suo lavoro. Per questo ho detto neutro in riferimento al metodo dell’I Ching. In questo modo egli ha anche criticato la funzione tradizionale del musicista/artista. E il Sistema/Nulla dell’I Ching era anche uno strumento di ironia.
Con il suo uso di elementi neutri – oggetti con una connotazione neutra, definizioni del dizionario, fotografie, ingrandimenti fotografici (blow-ups) e copie fotostatiche, iscrizioni, citazioni, headlines... – intende determinare un analogo cambiamento?

Sì. La capacità degli elementi di rimanere «neutri» è limitata. Il paradosso è che se il lavoro ha successo, allora l’effetto culturale è quello di individuare l’opera con significati aggiunti che finiscono per alterarla radicalmente, come uno stile nel tempo, tra altre cose. Il desiderio che il processo artistico sia visto come un processo è un meccanismo contro questa tendenza, perché allora il significato dinamico viene ad essere collocato tra le opere, piuttosto che negli elementi fisici che vengono utilizzati in ogni particolare opera. In questo modo le idee acquisiscono maggior valore dell’oggetto, che è sempre un ricettacolo di generi di significati formalisti e definiti dal mercato.

Se l’arte è un verbo, il suo significato è prodotto da un processo e non da un’opera statica. Per Cage ed anche per lei, lo spettatore/lettore è direttamente coinvolto nel processo, ha il suo ruolo, è chiamato ad interagire. Così l’arte è collegata all’esperienza.

C’è una discrepanza tra la sua idea di esperienza e quella di Cage?

Cage pensava di sì, e per questo motivo pensava che ci fosse una frattura tra il suo lavoro e l’Arte Concettuale. Egli pensava che l’Arte Concettuale considerasse l’esperienza come qualcosa di già compiuto prima di iniziare. Cage ha commentato questo in un’intervista, parlando dell’esperienza dell’esecuzione di Vexations (di Satie) a New York.
Secondo me, l’ idea di esperienza che lei ha è strettamente connessa al contesto e alla pratica artistica (teoria e prassi) nell’arte. Se «il significato è l’uso»...

Ebbene, come ho detto prima, sono sicuro che ci siano punti di differenza e punti di corrispondenza. Tra i nostri approcci c’è «simpatia». In ogni caso, può darsi che Cage si riferisse a qualcosa che avevo detto in un’intervista negli anni ‘60, cioè che volevo rimuovere l’esperienza dal lavoro artistico. Avevo detto questo in un contesto in cui mi opponevo alla possibilità che l’arte divenisse una forma di intrattenimento. Stavo sostenendo il rigore. Pensavo a quello che Apollinaire aveva detto sul tentativo del Cubismo di togliere dall’arte qualsiasi fascinazione l’uomo avesse per l’uomo e come fosse fallito. Ma forse solo più tardi, quando quegli elementi «neutri» avevano perso la loro neutralità. In ogni caso, non ero contrario al fatto che l’osservatore/lettore avesse un’esperienza, il mio era un avvertimento per l’artista: semplicemente non volevo che l’arte avesse l’aspettativa dell’Esperienza come parte del suoi obiettivi. Neanche ora. È una forma che assume il sentimentalismo. Se il linguaggio è la nostra guida, possiamo anche capire che l’arte è, persino in modo programmatico, un palcoscenico per l’esperienza quanto un limite ad essa.

La conversazione si è svolta, tra fax e telefonate (creando interruzioni necessarie), tra fine ottobre e inizio novembre 1998. La traduzione delle risposte di Joseph Kosuth è di Maria Pia Alignani e Lucia Prandi.
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