Come nell’allusivo scatto in copertina, ci sono due Parise. Non mancano certo figure di “doppi”, e spettri cangianti sulle superfici a specchio delle acque, nel veneto appassionato di cinema che aveva scritto Il ragazzo morto e le comete. Ma l’assunto, si capisce, ha un valore più generale. Similmente a quello del letterario “padre” (acquisito) Comisso, anche al suo nome risponde oggi, infatti, meno un corpus testuale che un’aura. Diciamo pure una moda. Più che una scrittura, un evocativo quanto malcerto sentimento della letteratura. Ed è invariabilmente all’ultimo Parise che si pensa: a quel miracoloso dizionario dei sentimenti che sono i Sillabari. Fatti oggetto in questi anni, non a caso, di pubblicazioni specifiche, riduzioni teatrali, registrazioni fonografiche. È questo il Parise ideale, diciamo. Limitandosi solo a questo, però, si perde tantissimo del Parise reale.
Intanto, così facendo, si mette fra parentesi la premessa, a quel prodigio di sgorgamento, che è il livido e angoscioso ingorgo psichico e sociale messo a nudo da testi come Arsenico e Il crematorio di Vienna (la parta maledetta di quest’opera - dunque quella da rileggere per prima). Poi si chiudono gli occhi su quello che della limpidezza dei Sillabari è il segreto calco negativo, L’odore del sangue. Infine degli stessi Sillabari, in questo modo, si dà una lettura dimidiata, anestetizzata, che non interroga le modalità pratiche, di scrittura, che a quel “miracolo” soggiacciono, e il miracolo hanno prodotto (riassumendo in poche righe certi procedimenti di quella scrittura, così gli aveva scritto un ammirato Calvino: «quel tanto di partito preso che ci metti nell’applicare questa tua poetica è proprio il segno del fatto che scrivi oggi, che “esegui un’operazione letteraria” (protesta pure) e il senso di quello che fai è proprio lì»), e che così non può restituire le inquietudini che sotto la pelle di quella scrittura circolano formicolanti - per poi emergere, in superficie, quali improvvisi eritemi psichici (avrebbe detto uno come Zanzotto): specie nei pezzi raccolti nella seconda serie viene a giorno con insistenza il tema, se non l’ossessione, dell’«imperfezione fisica, della deformità, della malattia» (così Enzo Golino, a caldo, in una recensione di perspicacia rara e persino profetica - per quanto attiene alla fortuna dell’autore).
Il Parise reale, all’origine, è quello dello stupefacente slancio poetizzante e fuoriformato del Ragazzo morto e le comete (con l’altrettanto segreto antefatto dei Movimenti remoti): come lo ricorda Parise stesso intervistato da Claudio Altarocca nella sua monografia del 1972, il suo era allora un «approccio letterario che vorrei chiamare “per associazioni” o “collage” (brutta parola fino a ieri di moda ma che preferisco alla consumatissima definizione di massa “sperimentale”)». Qualcosa di radicalmente alternativo rispetto a un «contesto letterario, italiano e straniero, del tutto opposto» (glielo aveva scritto sempre Calvino, in privato, qualche anno prima: «Perdio, che fiato avevamo da giovani! Forza di trasfigurazione, ricchezza, libertà, coraggio, cattiveria, insomma poesia. Come ci ha tarpato le ali (a te, a me, a tutti) il trionfo del verismo romano-piccolo borghese su tutta la letteratura italiana del dopoguerra»). C’è poi il romanziere “moraviano”, grottesco e insieme già sentimentale (come divinò Sanguineti scrivendo del Prete bello). C’è lo scrittore pop e pop al nero, «kafkiano» (per Giacomo Debenedetti) e già «postmoderno» (per Silvio Perrella), del Padrone. E poi c’è il viaggiatore «politico», che è forse il Parise più suggestivo di tutti: quello che, in un tempo come il nostro di ritornante ibridazione fra giornalismo e invenzione narrativa, consente forse di ricominciare a leggerlo davvero, quest’autore.
Uno dei capisaldi della vulgata, per esempio, vede in Parise un pioniere dell’anti-ideologismo oggi alla moda. Ma non solo Guerre politiche ci mostra quanto politica, invece, sia stata appunto la sua vicenda: il che dovrebbe impedire di fare di lui un antesignano degli anticonformisti a contratto d’oggidì. Politica, per uno come lui, non equivale a dire “ideologica”, ovviamente: come mostra la storia delle sue correzioni di rotta, sempre “empiricamente” documentate sul campo, in merito alla cruciale vicenda del Vietnam. Leggendo anzi - come ora è possibile fare per la prima volta in forma integrale, ancorché incompiuta - il principale inedito rimasto ancora fra le sue carte, che proprio Politica s’intitola (col sottotitolo irridente Trotto leggero), si conferma come sia questo il testo-chiave, la favola d’identità del Parise “politico” non dell’anti-politica (sintomatica la virulenza delle sue prese di posizione tarde nei confronti dello «squadrismo regionalistico» della Lega nascente: «La Tribuna di Treviso», 23 dicembre 1984) bensì di una concezione, della politica, più che sentimentale umorale, e insomma corporale (biologica dunque, certo): che si traduce in un rifiuto viscerale, di contro, nei confronti di quanto di astratto, irreale, appunto ideologico Parise poteva percepire nell’Italia in cui scrisse queste pagine: quella degli anni Settanta.
Per quanto tentasse Parise di convincere i suoi interlocutori che nulla aveva che fare con la politica, questo romanzo interrotto ci si presenta alimentato da una vena non definibile altrimenti che politica, appunto. Fa capolino Machiavelli, a un certo punto, e persino Cartesio, con le sue idee chiare e distinte e il suo «discorso sul metodo». Questa vena è molto forte, e ha le sue radici proprio nella civiltà di provincia dalla quale Parise proviene e che incarna a perfezione nei Sillabari, opera italiana per eccellenza come il cinema neorealista, quello di Fellini e persino quello dello stesso Pasolini. Se è dall’essersi sottratto alla «politica» degli anni Sessanta e Settanta che, sostiene Parise, nascono le favole dei Sillabari, La politica (Trotto leggero) contiene invece a suo modo, in negativo, l’aspirazione a un paese diverso. Nella sua ultima pagina, in cui il protagonista Giacomo cena al Biffi con il conoscente Ignazio che «lavorava in un partito di sinistra, non diremo quale» (ma specifica Parise che non è il PCI), e al quale spiega la sua visione disincantata, machiavellica appunto, della politica come mero rapporto di forze. Un’«associazione a delinquere» alla quale, nelle proprie scelte di vita, lui ha scelto di sottrarsi. Gli formula una profezia e gli dà un insegnamento. Primo, «la gente crederà sempre meno in dio e nei parroci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi. Chi ha le proprietà cerca di difenderle, chi non le ha vorrà vantaggi». Secondo, quello che può fare un partito come il suo è «aumentare il valore delle tangenti», sottrarre cioè la corruzione al piccolo cabotaggio dell’arricchimento personale per farne un elemento di sistema, cioè un dispositivo di potere. Ignazio gli chiede come si possa fare, tutto questo. Giacomo ride e risponde: «non ti voglio rubare il mestiere. Pensaci, pensateci. C’è anche un proverbio. Nessuno fa niente per niente». Proprio come Machiavelli a suo tempo, mostrando al potere la strada per perfezionarsi, il Parise della Politica mostra in realtà, di quel potere, il volto più osceno e ributtante. La profezia è ancora più lucida di quella, celebre, che pochi anni dopo Calvino pubblicherà col titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Più lucida e più amara: intollerabile, si vede, anche per colui che l’ha espressa. E che la chiude in un cassetto.
Si sa, lo ha ripetuto a più riprese egli stesso, come una parola sintetizzasse per Parise tutto ciò cui la “messa a terra” dei Sillabari intendeva reagire: la parola «rivoluzionarizzare». E si sa, ora, che è a Pasolini - all’icona ideologica di Pasolini, più che al Pasolini in carne e ossa che così bene conosceva - che apparteneva quella parola. Ma è sintomatico che in un reportage dall’Albania, del 1969 (La cometa Tirana, uscito sull’«Espresso» il 10 agosto di quell’anno), lo stesso Parise avesse impiegato, senza commentarlo, il termine «rivoluzionarizzazione» (ascoltato, s’immagina, dalla tribuna di un congresso a Tirana). Esempio illuminante, questo, di come le reazioni e gli scatti umorali di Parise, che tante simpatie ma anche tante ostilità gli attirarono soprattutto nei suoi ultimi anni, fossero spesso scatti e reazioni nei confronti - anche - di se stesso: di una parte di se stesso, cioè, che egli intendeva combattere. La sua guerra politica interiore era dunque una guerra civile, una guerra tra fratelli, una guerra con l’ombra oscura che vedeva allo specchio: così aveva imparato a fare, nel proprio stesso sangue percepito come impuro, sin dall’adolescenza. Di qui la sua multanimità: cioè, nei comportamenti, la sua umoralità e, letterariamente parlando, la sua capacità di cambiare strada - di fare le sue «mute», per dirla sempre alla maniera di Zanzotto - in modo repentino, sorprendente, sempre vitale.
Un Parise, dunque, e tanti Parise. Se c’è un autore che ci appare vivo, oggi, è questo interprete straordinario del valore della vita: questo bio-autore che gli accenti più straordinari seppe trovare quando capì - e oscuramente lo sospettava forse da sempre, nel profondo del suo sangue - che il suo tempo, la sua vita appunto, era ormai in scadenza. Ma se tale ci appare, in effetti, è proprio perché quella vita, e quell’opera, si sono interrotte in modo così brusco e traumatico. Come i suoi Sillabari, insomma, Parise è felicemente incompiuto: fluido, mutante, non cristallizzato. Una condizione felice, s’intende, per noi che lo leggiamo; alla resa dei conti il suo punto di vista, si capisce, era un po’ diverso. Rispondendo ai versi dell’amico Montale, che lo aveva fotografato «alla primalba», «incapsulato in una botte», alla vana ricerca di «richiudere il tutto in qualche niente / che si rivela solo perché si sente», Parise risponde amaro, nelle sillabe postreme delle Poesie dettate alle compagne della sua vita: «Pareva questione di un attimo / afferrare il bandolo / invece / di colpo / fu troppo tardi».
Il bandolo, quello, davvero non è dato afferrarlo. Ma è già tanto, è già tanto davvero, fare l’esperienza del sentirlo. E lui, Parise, per qualche attimo almeno, ci era riuscito.