In tempi in cui l’immaturità dilaga e gli individui assomigliano sempre più a bambini smarriti, in un’epoca in cui l’elogio acritico di tutto ciò che è giovanile impazza nei mass media, forse è opportuno tornare a riflettere sull’opera dello scrittore polacco che per primo e in modo così radicale ha raccontato e deriso la voglia dell’uomo contemporaneo di essere-sempre-giovane.
Witold Gombrowicz, implacabile fustigatore di questo desiderio, ha la straordinaria particolarità di trovarsi dentro il problema; egli si definiva infatti «un maturo molto innamorato della propria immaturità». Coi suoi romanzi, Ferdydurke, capolavoro sull’«immaturità», Pornografia, tragica metafora sulla natura delle relazioni umane, Cosmo, libro anticipatore, di grande invenzione linguistica; col Diario e le opere teatrali, Iwona, principessa di Borgogna, Il matrimonio e Operetta, Gombrowicz ha costruito delle «macchine infernali» - l’espressione è di Sartre - per raccontare la scissione tra maturità e immaturità, tra vecchiaia e giovinezza, tra compiutezza e incompiutezza, per descrivere il bambino che si occulta nell’uomo e le fantasie onanistiche che alimentano i pensieri segreti dell’uomo moderno.
La lettura dei suoi libri, come documentano i suoi «scopritori», provoca una specie di scossa elettrica che costringe a mettere in discussione le nostre «idee certe» sul mondo e sugli uomini. Ma Gombrowicz è soprattutto un grande scrittore per le sue invenzioni linguistiche, per lo stile e i modi del racconto, tanto che, all’inizio degli anni Sessanta, divenne un maestro indiscusso per gli scrittori dell’avanguardia letteraria europea, un punto di riferimento per la narrativa che cercava, in quei decenni, di raccontare le illusioni delle società postbelliche.
E pensare che Gombrowicz fu per vent’anni un esiliato; partito nel 1939 dalla Polonia - come egli stesso racconta in un esilarante e tragicomico romanzo, Trans-Atlantico - per la crociera inaugurale di una nuova linea navale, finì per restare in Argentina per tutto il corso della guerra e oltre. La sua Polonia, quella dei nobilotti di provincia, cattolica e moralista, si inabissava intanto nei gorghi della storia e lui, un innovativo scrittore di lingua polacca, diveniva un povero esule, impiegato di banca e insegnante di filosofia a tempo perso, frequentatore di caffè all’aperto, un dilettante e parlatore di grande fascino. Questa «disavventura» - così importante per la lingua stessa dei suoi romanzi, questo esilio involontario che fece di lui anche uno dei più importanti scrittori diaristici di questa seconda metà del secolo - è raccontata in modo indimenticabile in Parigi-Berlino, il diario del suo ritorno al Vecchio Mondo, un ritorno carico di nostalgia, poetico e cinico a un tempo, come solo la prosa di un grande moralista riesce ad essere.
Questo è Gombrowicz per i suoi interlocutori e fedeli lettori: «uno dei tre o quattro più grandi scrittori dopo la morte di Proust», come ha scritto Milan Kundera, uno dei più provocatori interpreti della Modernità, ma anche un maestro della condizione umana.
Questo numero di «Riga», dedicato alla ricostruzione del percorso letterario intellettuale di Gombrowicz, si apre con i testi di due grandi poeti polacchi, Jaroslaw Iwaskiewicz e Zbigniew Herbert, e col racconto di uno degli scrittori della nuova generazione polacca, Pawel Huelle; ma anche con una poesia di un giocoliere della lingua inglese, Roger McGough, e il racconto di un pittore e scrittore visionario, Enzo Fabbrucci.