Marcel Duchamp è sicuramente uno degli artisti più importanti di questo secolo, uno dei «due artisti - l’altro è Picasso - che hanno esercitato maggiore influenza», ha scritto Octavio Paz in apertura della sua Apparenza nuda, certamente però anche uno dei più problematici, non fosse che da lui data il cambiamento più eclatante dell’arte, l’abbandono della pittura che egli definì «retinica», quando non «olfattiva», e l’inizio di altre forme, altri strumenti, altre «apparenze».
Ogni sua invenzione segna di fatto una tappa nella storia dell’arte contemporanea. Nato nel 1887 e morto nel 1968, fu innovatore e outsider fin dagli inizi: a partire dal Nudo che scende le scale, attraverso il Grande Vetro, i readymades, ma anche i rotorilievi, le edizioni, i multipli, gli allestimenti di esposizioni, fino all’ultima grande opera tenuta nascosta a tutti per ben vent’anni e resa nota solo dopo la morte, è sempre stato in contrasto con ciò che si faceva intorno a lui e in anticipo su quanto seguiva. Così il suo percorso appare fino all’ultimo seminato di «scandali» e fino a non molto tempo fa la sua opera restava appannaggio degli specialisti e dell’esiguo pubblico di quell’arte contemporanea che ha proseguito sulla strada di quei cambiamenti.
Oggetto delle interpretazioni più disparate, fino alle più azzardate, è stato per ciò anche soggetto delle influenze storiche più ricche e diverse, specie nel dopoguerra, dalla Pop Art all’Happening, alla nuova musica, dall’Optical alla Body Art, all’Arte Concettuale, fino alle ultime generazioni cosiddette dell’Appropriazione. Ma, ancora una volta, come sono nate tali opere e influenze da una personalità come la sua ed è possibile interpretarle al di fuori di questo legame assoluto? Tanto più la questione si ripropone per Duchamp, di cui si è arrivati a scrivere che il vero capolavoro è stato la sua stessa vita, dal modo d’essere fino al «modo di occupare il tempo», e tanto più quando è noto il rimando di ogni singola sua opera all’occasione biografica, insieme di rimandi che hanno perfino fatto della sua attività artistica una sorta di continua autoanalisi, di cui testimonia perfino l’effetto di prodigiosa coerenza che ne emana.
Così, insomma, se il readymade, per esempio, ha costituito un’innovazione formale tale da cambiare il modo stesso di fare arte - che sia ora intesa come prelievo estetico o come «arte a proposito di arte», o come realismo assoluto o come citazione, o anche come simulacro - resta da ribadire che tutto va tenuto e tiene insieme, come non finiscono mai di ricordare l’ammirazione e le testimonianze di contemporanei. Se dunque è vero che «sono gli osservatori a fare i quadri», secondo la famosa battuta di Duchamp stesso, e alla «posterità» spetta il verdetto storico, a Riga interessa rilanciare la questione a modo suo, modo che è quello che accomuna a questo punto Duchamp agli altri di cui si è già occupata, artisti apparentemente lontanissimi come Giacometti, Valentini, Perec, modo che vuole prendere sul vivo sia le opere che le intenzioni dell’artista, sia la partecipazione dei contemporanei che le letture storiche e teoriche, che l’azzardo delle interpretazioni più recenti e legate all’attualità.
Proseguendo l’impostazione che Riga si è data fin dal primo numero, si troveranno in apertura due interventi letterari: il primo una poesia di Octavio Paz, rinnovata e inesauribile riflessione dell’autore di Apparenza nuda questa volta a proposito del quadro Dulcinea in particolare; il secondo tre brevi testi di Lucio Klobas che affrontano con humour, qualità duchampiana per eccellenza, tre sport che con Duchamp hanno non poca attinenza.