John Cage è preceduto dalla sua leggenda che, a seconda dei casi, lo vorrebbe come un esploratore di rumori o, al contrario, come un apologeta del silenzio; un artista votato allo scandalo o un discepolo Zen, un filosofo più che un musicista, quando non semplicemente un esecutore o performer di opere destinate a non sopravvivergli: un musicista senza musica che oscilla tra il caos e l’ascesi. Di lui, Schönberg disse che non era un compositore, ma un «inventore». Le definizioni date di John Cage si sono sprecate e la leggenda ha superato di molto l’effettiva conoscenza della sua opera che, ai più, rimane ancora del tutto sconosciuta. Conoscerla, significa affrontare la sfida dei paradossi che l’hanno sorretta: «Comporre è una cosa, eseguire un’altra, ascoltare un’altra ancora. Che possono avere a che fare l’una con l’altra?».
Con questo numero di «Riga», il primo dedicato a un musicista, ci siamo proposti di investigare il senso profondo delle innovazioni radicali apportate, con le sue opere, dal compositore contemporaneo che forse più di ogni altro ha contribuito a deviare il corso e il destino della tradizione musicale dell’Occidente: dopo di lui, la musica non è stata più la stessa. La maggior parte dei testi di Cage qui tradotti per la prima volta, o riproposti per l’occasione, pongono l’accento sulla complessità della sua produzione compositiva sullo sfondo delle diverse discipline che hanno intersecato la sua ricerca: oltre la musica, naturalmente, la filosofia, la letteratura, l’arte, il pensiero orientale, la micologia, ecc.
È un Cage affabulante quello che si presenta con le Confessioni di un compositore, un precoce schizzo autobiografico (il testo è del 1948), che ritrae l’autore sin dalle sue prime infantili lezioni di pianoforte per giungere all’incontro con Shönberg, destinato a marcare indelebilmente il suo apprendistato di compositore, e all’invenzione del pianoforte preparato. Sperimentando forme di scrittura sempre più vicine alla musica, i suoi testi mantengono comunque integra una valenza ora teorica, ora poetica. Ne sono una conferma le tre conferenze di Composizione come processo, un vero e proprio manifesto delle concezioni sperimentali incarnate dalla sua musica, o il celebre Diario dal sottotitolo così sottilmente provocatorio, Come migliorare il mondo (non farete che peggiorare le cose), di cui è qui tradotta tutta la sezione iniziale scritta nel 1965 a riprova di una riflessione che vuole essere etica prima ancora che affidarsi a un disegno estetico: un mosaico di citazioni, frammenti, spazi bianchi come silenzi, in cui affiorano le voci di alcuni personaggi fondamentali per comprendere la collocazione di Cage all’interno della cultura americana contemporanea - da Marshall McLuhan, a Norman O. Brown e a Buckminster Fuller -, e che ci consegnano un inventivo teorico della comunicazione, un inclassificabile filosofo, un precursore delle rivendicazioni libertarie degli anni ’60, un utopista visionario dedito al culto della tecnologia.